Quando la vacanza sembrava sfumata, il caso ci ha spinti al lago Bishoftu e qui il viaggio ha ripreso colore. Dopo le sublimi cascate Vittoria e la crociera sullo Zambesi nello Zimbabwe, tra elefanti e ippopotami, giunti all’aeroporto di Maputo ci troviamo costretti a passare la notte della Vigilia di Natale sdraiati su una panca della polizia a causa della rivolta antigovernativa sfociata il giorno prima in tutto il Mozambico. Il coro è unanime: “Muito perigoso! Muuuy peligroso!”. Nessun autista osa entrare o uscire dal perimetro dell’aeroporto, circondato da sbarramenti eretti dai rivoltosi ma anche da bande di malviventi che approfittano della situazione per derubare i malcapitati, specie se bianchi occidentali.

La mattina del giorno di Natale, alle sei, quando presumo che i ribelli dormano, trovo un privato che, grazie ad un generoso compenso, accetta di portarci a tutta velocità al nostro albergo situato in pieno centro. Sfreccia a zig-zag in un percorso adrenalinico, non privo di rischi, tra strade divelte, barricate e i segni evidenti di una estesa guerriglia urbana.

La struttura autoritaria del Frelimo (Fronte di Liberazione del Mozambico), partito che ha ottenuto l’indipendenza dai portoghesi e guida il paese dal 1975, non è più amata dal popolo come un tempo, neppure dagli stessi poliziotti e militari che però non osano ribellarsi. Il governo ha vinto le recenti elezioni ma l’esito del voto è fortemente contestato. Nonostante l’accusa di brogli da parte del candidato d’opposizione, Vananzio Mondlane, la giunta militare rimane salda al potere usando la forza. Questo ha generato violenti scontri con centinaia di morti, saccheggi e l'assalto al carcere di massima sicurezza di Maputo da cui sono evasi in migliaia.

Nel nostro caso specifico, avremmo dovuto rimanere venti giorni sulle spiagge nel nord del Mozambico, mentre ora siamo “segregati” in hotel, nel mezzo di una classica rivoluzione sociale. A prendersi cura di noi è il Console italiano Eugenio Rotaru di Parma che prima ci esorta a lasciare il paese al più presto e dopo tre giorni ci scorta personalmente all’aeroporto. La sera del 27 dicembre ci troviamo così “catapultati” ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia, un’altra città assediata da conflitti su tutti i lati.

Lungo la via il primo impatto è sorprendente. I viali iper-illuminati che dall’aeroporto si dirigono verso il centro regalano l’illusione di essere atterrati in una ricca e moderna metropoli, in stile Dubai, ma ben presto, parlando con la gente comune, scopriamo che quelle luci possono trarre in inganno il visitatore. L’intera Addis Abeba è un cantiere a cielo aperto, con super strade e scheletri di grandi edifici in costruzione a discapito di interi quartieri popolari completamente polverizzati. Un’ondata di demolizioni che ha trasformato radicalmente la capitale etiope, abitata da circa 4 milioni di persone. Un mega progetto voluto dal primo ministro Abiy Ahmed “per attrarre investimenti esteri in Etiopia”.

Se da un lato è il frutto di una visione futuristica orientata al progresso, dall’altro migliaia di famiglie sono state sfollate nel giro di poche settimane, un vero e proprio esproprio in cambio di una liquidazione irrisoria, “cento volte” inferiore al valore reale, creando un malcontento generale sempre più acclamato e diffuso. Il ministro Abiy, insignito del premio Nobel per la pace nel 2019, qualche anno fa era un politico molto apprezzato, ma per questa scelta e per le guerre nel Tigray e nell’Amhara è ora detestato da buona parte della popolazione. Il taxista lamenta l’aumento del carovita che lo costringe a fare un solo pasto al giorno: “La miseria è stata trasferita nei sobborghi. Cosa mangiamo, il cemento?”.

Un “carovita” che per noi occidentale rimane comunque decisamente modesto: 200 Birr è la banconota etiope di taglio più grosso e corrisponde ad appena un euro e mezzo, mentre la più piccola di 5 Birr vale 3,7 centesimi di euro. Un caffè, buonissimo, costa 15 Birr.

Una sosta tanto lunga in Etiopia non era prevista, consapevoli che i luoghi più interessanti da visitare, come le chiese monolitiche scavate nella roccia a Lalibela e il Recinto Reale di Gondar a nord o le tribù della Valle dell’Omo a sud, sono assolutamente da evitare per gli scontri a fuoco ed i frequenti assalti ad autovetture da parte di bande armate. Stessa cosa verso la Somalia o il Sudan, in pratica pare che Addis Abeba sia l’unico luogo tranquillo di tutta l’Etiopia. Non ci resta che visitare i diversi punti d’interesse della capitale nella speranza di trovare, nel frattempo, qualche suggerimento utile su dove trascorrere questi venti giorni in Etiopia.

La capitale etiope sorge su un’altitudine di 2400 metri e la prima cosa che ci incuriosisce è salire sul monte Entoto, definito “il polmone di Addis Abeba”, e osservare la città dall’alto dei suoi 3200 metri. Dal nostro hotel, nel quartiere di Arat Kilo, l’ingresso principale all’Entoto Park dista una decina di chilometri verso nord. Ci accompagna il giovane Yonatan che con la sua Toyota si improvvisa Cicerone. La montagna è fittamente ricoperta di eucalipti, alberi importati dall’Australia dall’imperatore Menelik II, che qui visse e costruì il suo palazzo per volere della terza consorte Taytu. Dalla piattaforma Belvedere, caratterizzata da tre grandi fiori di rami (ispirati al “Gardens by the Bay” di Singapore), si gode una splendida veduta panoramica della città ed il clima è semplicemente perfetto!

La visita successiva la facciamo al vasto quartiere di Merkato, il più grande mercato d’Africa, una città nella città nei pressi di Piassa, lo storico centro dei colonizzatori italiani, ora demolito. Qui si raduna pure una estesa concentrazione di donne e bambini in uno stato di estrema indigenza. Tuttavia, anche nel chiedere l’elemosina, notiamo delle differenze. Basta una piccola moneta per esserci grati di avergli dato attenzione e con un grande sorriso ci salutano senza insistere oltre. Rivelano, anche in questo dettaglio umano, una loro intima dignità, un dna gradevole, diverso da ciò che in genere ci si aspetta.

Nei giorni che seguono giriamo in lungo e in largo la capitale fino a farcela diventare famigliare. Purtroppo, il Museo Nazionale è chiuso per restauro, così come l’ufficio del turismo, ma rimediamo con Google che ci indirizza alla visita del superbo Museo Etnologico, nell’ex residenza imperiale di Haile Selassie I che si trova all’interno del campus universitario di Addis Abeba, in Algeria Avenue.

Le sale dell’intero palazzo a due piani, circondato da giardini, sono in gran parte occupate dalle collezioni di antichi manufatti etnologici. Grande rilievo, con dipinti, fotografie e documenti, viene dato all’occupazione italiana, dalla battaglia di Adua del 1896 e la guerra in Abissinia al “Graziani Massacre”, la strage di etiopi avvenuta tra il 19 e il 21 febbraio del 1937, dopo il fallito attentato al viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani. Una brutale rappresaglia compiuti da civili italiani, militari del Regio Esercito e squadre fasciste contro civili etiopi, le cui stime arrivano alla cifra approssimativa di 19.000 vittime.

Questo stesso palazzo, costruito nel 1932 per volere di Haile Selassie I, fu la residenza dei viceré italiani, quali Badoglio, Graziani, Amedeo d’Aosta e infine, nel 1941, tornò di nuovo all’imperatore che la donò all’università. Fuori dal campus, alla rotatoria di piazza Yekatit 12, è stato eretto un obelisco a memoria del massacro e c’è da stupirsi che nessuno accenni a rancori verso gli italiani; al contrario, pare che il destino dei due paesi in qualche modo ci abbia uniti.

L’altro drammatico periodo, che ha sconvolto il paese dal 1974 al 1991, è testimoniato al Red Terror Martyrs Museum, il memoriale delle vittime della brutale repressione avvenuta durante il regime marxista-leninista del Derg guidato da Menghistu Hailé Mariàm. L'esposizione include una collezione di strumenti di tortura, teschi e ossa, fotografie delle vittime e altri cimeli, compresa l’auto di Menghistu e la foto storica del lancio della bottiglia piena di sangue. È un museo “impegnativo”, utile però a comprendere la vera storia di questo martoriato paese. All’epoca, nel 1979, ero a Gibuti e ricordo bene i terribili racconti degli studenti fuggiti dall’Etiopia di Menghistu. Il taxista a tal riguardo spiega che a molte persone questo museo non piace: “Bisogna considerare che è stata una guerra civile e gli oppositori, ovviamente, non concordano con la versione del museo”.

Musei a parte, questa città è grande e i punti d’interesse non mancano. Alla sera ci rechiamo all’African Jazz Village, all’interno del Ghion hotel, per ascoltare il mitico Mulato Astatke, considerato il padre del Jazz etiope. Stupenda serata di brani eccelsi, una miscela di suoni Jazz e Latin con elementi di musica etiopica. Qui incontriamo il danese Hans ed il francese Alan appassionati di jazz, giunti ad Addis Abeba solo per ascoltare la qualità dei musicisti che si esibiscono al Jazz Festival di febbraio: “I migliori d’Africa!”.

Una cosa che colpisce, in positivo, è la diffusa e sentita religiosità della gente, vissuta con intensa devozione e sobrietà. L’Etiopia è conosciuta come l’isola della cristianità in Africa. Infatti, mentre nel VII secolo le fiorenti comunità cristiane del Nord Africa sono state spazzate via dall’avanzata dell’Islam, l’Etiopia è stato l’unico Paese dell’Africa che ha conservato fede e tradizione cristiana che ancora oggi costituisce circa il 60% della popolazione totale.

Quella etiope è la più grande di tutte le chiese orientali ortodosse, seguita dalle varie congregazioni di protestanti e da una minoranza di cattolici. La cattedrale della Santissima Trinità è la più antica di Addis Abeba, sede ufficiale dell'arcidiocesi ortodossa della capitale. Al suo interno si trovano i Sarcofaghi imperiali di Hailé Selassié e della moglie Menen Asfaw, mentre il cimitero sul lato destro della chiesa nei decenni è diventato il luogo di sepoltura delle vittime della strage di Addis Abeba, dei combattenti contro gli invasori italiani e degli ufficiali governativi uccisi dal regime comunista del Derg.

È giunto il momento di cambiare situazione e l’unica zona tranquilla di villeggiatura, fuori da Addis Abeba, pare essere la serie di laghi craterici che fanno capo alla cittadina di Bishoftu sul lago omonimo, una cinquantina di chilometri a sud della capitale. È una località famosa per i suoi laghi, dove si pratica il canottaggio e diversi altri sport acquatici, ma soprattutto per la sua avifauna e i suoi diversi festival.

Con Yonatan e la sua Toyota andiamo a fare un sopralluogo. Notiamo subito che la gente qui è più serena e sorridente, si respira una dimensione rurale con le strade invase da mucche, pecore, carri trainati da cavalli e dai simpatici mezzi di trasporto di colore blu, chiamati “bagiagh”, una versione etiope dei tuk-tuk tailandesi. Non ci sono mendicanti e tutte le persone che incontriamo ci salutano con un cordiale “salam”, lo stesso usato dagli arabi. Ci piace.

Attorno al lago, distanti tra loro e confusi nel verde, hanno costruito alcuni hotel davvero lussuosi, come il Noora ed il Pyramid, ma anche piacevoli resort popolari, come il Bishoftu Afaf hotel e l’Olompic hotel, un superbo complesso vacanziero d’altri tempi, quasi completamente vuoto, con ampie terrazze e le grandi vetrate delle camere affacciate sul lago per, incredibile ma vero, appena 500 Birr (3,75 euro) a notte. Mai visto un alloggio tanto bello e suggestivo ad un prezzo così conveniente. Lo prenotiamo e vi facciamo ritorno da Addis Abeba il giorno dopo in autobus, in un’ora e trenta di viaggio al costo di 40 Birr.

Gli hotel sono costruiti su di un ripido argine, in una posizione panoramica che consente di osservare il lago dall’alto. Lago su cui volano di continuo aquile pescatrici e grossi marabù, qui chiamati “abakodà”, uno spettacolo per noi e per gli amanti del birdwatching. Siamo a 1930 metri d’altitudine e, con l’aria fresca, senza umidità, inquinamento e zanzare, non sembra neppure di essere in Africa.

La gente del circondario ci invita nelle loro case e ben presto diventiamo una presenza famigliare per tutti, sempre garbati e rispettosi, mai invadenti. Non so se dipende dalla moralità della religione ortodossa o altro, sta di fatto che in molti luoghi di ristoro non vendono alcolici, neppure una birra, e nessuno fuma, diventa difficile perfino trovare un negozio che venda sigarette. In compenso, le vie sono costellate da una serie infinita di caffetterie, con un caffè preparato al minuto seguendo una pregevole tradizione custodita nei secoli.

Il caffè etiope è considerato, a ragione, uno dei migliori al mondo, grazie alla sua eccellente qualità arabica, corposa e non amara. Viene poi preparato e servito con l’uso della “Jebena”, una tipica brocca con manico e beccuccio in terracotta, il simbolo tangibile di un rito millenario. Questa cerimonia, non rappresenta solo una preparazione, ma è un significativo e profondo momento spirituale, dedicato ai doni della vita, all’amicizia, all’ospitalità e al rispetto, verso gli anziani. Un semplice rito metodico capace di regalarti momenti piacevolissimi.

Durante la nostra permanenza di caffè ne abbiamo bevuti parecchi, in alcuni casi non hanno neppure voluto essere pagati, in segno di benvenuto. La stessa Alina, la tuttofare dell’Olompic hotel, ogni mattino ci aspetta per versarci una buona tazza di caffè fumante appena fatto. Stessa cosa nella caffetteria dell’Afaf hotel accanto, serviti dalla giovane Yetnayeh.

Dopo aver esplorato a piedi tutto il perimetro del Bishoftu Lake, nei giorni a seguire con i taxi bagiagh andiamo a visitare altri tre laghi, distanti tra loro una manciata di chilometri, ognuno con le proprie caratteristiche. Per primo scegliamo di vedere il Pelican Paradise Resort sul Babogaya Lake e subito restiamo sorpresi dalla Fiat Topolino rossa e dalla vecchia Jaguar argentata parcheggiate ai lati della reception. Una ripida scalinata ci conduce poi sulla riva, con una grande barca a remi per il giro turistico del lago.

Giro che scegliamo di fare pure all’Hora Lake, col barcaiolo David dell’Etalam Resort e in compagnia di Hana, una vivace e simpatica ragazza etiope madre di quattro figli ancora piccoli avuti da quattro uomini diversi. Durante il pranzo nel terrazzo del resort, Hana racconta nei dettagli le storie d’amore dei quattro padri dileguatisi poi nel nulla e, scherzando, ci invita a portare i figli con noi in Italia.

Il Kiroftu Resort & Spa sul lago omonimo lo lasciamo per ultimo perché è il più turistico ed esclusivo per lo standard etiope, con tanto di Water Park, piscine, area giochi, sport acquatici ed è dove i tour operator portano i gitanti benestanti ed i turisti stranieri da Addis Abeba. Anche se in questo periodo è praticamente deserto. Di ritorno, saliamo sulla collina della Chiesa ortodossa di Saint Rufael situata nel centro di Bishoftu, dalla quale si domina la città ed il coloratissimo mercato. Nella saletta del Coffee Land passiamo ore a giocare a dama e a scacchi con ragazzi etiopi. Dall’anziana e cordialissima titolare, impariamo che durante l'impero coloniale italiano, Bishoftu era chiamata Ada e lo stesso piano regolatore della città fu curato da un architetto italiano.

Oggi è il 7 gennaio, il giorno di Natale per gli ortodossi e dalla baracca in lamiera accanto all’Olompic si suona e si canta a tutto volume. Entriamo a curiosare e assistiamo alla messa natalizia più rock mai vissuta prima, in un’atmosfera di pura gioia collettiva. Festeggiamo pure noi il Natale nel ristorante Mona Foni Raya, serviti da camerieri in divisa che chiedono il permesso di farsi fotografare con noi. Il cibo etiope, in generale, è molto piccante e si usa mangiare con le mani anche nei ristoranti di alto livello, ma non il piatto di spaghetti con le verdure che in genere ordino, chiamato “pasta Batkilt”. Il piatto forte, ordinato nel tavolo accanto, è il “Saklà Tibes”, carne al fuoco servita al tavolo. Unico neo, come in tanti altri luoghi di ristoro, usano tenere il volume della musica decisamente alto.

In ultima analisi, per strada, nei negozi e un po' dovunque possiamo dire di avere conosciuto tante brave persone. Gli etiopi, quando camminano, spesso possono dare l’impressione di essere perennemente pensierosi, mesti, ma appena gli chiedi una qualsiasi cosa rispondono con un grande sorriso che ne accende i visi e di colpo si illuminano. È davvero gente amabile e partiamo col desiderio di tornare presto.