Escludendo gli anni Cinquanta, noti per essere stati segnati dalla ricostruzione post-bellica, si può agevolmente affermare che il primo impatto della società italiana con il consumismo fu al contempo violento e traumatico: violento perché la diffusione culturale dello “stile di vita americano” avvenne in modo rapido e persuasivo, coinvolgendo ogni aspetto della quotidianità; traumatico perché il nuovo modello proposto dalla società nord americana infranse anche tradizioni e consolidate abitudini di vita. Non a caso, non mancarono inizialmente le resistenze da parte delle famiglie Italiane, che cercarono di opporsi ai nuovi consumi che si affacciavano sul mercato.
Una volta però superate le diffidenze e i sospetti verso il nuovo mondo del consumo, gli Italiani si affrettarono a riconvertire il loro stile di vita e cominciarono non solo ad acquistare con notevole interesse i nuovi prodotti, ma anche a rifiutare, senza troppi rimpianti, l’impalcatura culturale che in precedenza aveva orientato i loro costumi e le loro abitudini di vita.
L’evoluzione degli acquisti nelle famiglie avviene circa in un decennio, introducendo profondi cambiamenti. Elettrodomestici come lavatrice, televisore e frigorifero, all’epoca veri e propri beni di lusso, iniziano ad entrare nelle case, ispirando un modello di vita influenzato dall’American Way of Life: cibi industriali, automobile e consumi moderni, in netto contrasto con l’Italia tradizionale, basata su prodotti genuini, artigianali e focolare domestico.
Questi nuovi “gadget casalinghi” resero più semplice la gestione quotidiana: il bucato prima fatto a mano, richiedeva molto più tempo e fatica, mentre l’assenza del frigorifero obbligava a metodi di conservazione che spesso comportavano una lunga preparazione dei cibi prima della cottura.
Ma ciò che è nuovo è anche desiderato perché consente l’integrazione della nuova società urbano-industriale. Il possesso di certi beni garantisce un nuovo status, chi ne è privo resta ai margini della nuova società o ne è addirittura escluso.
L’abbigliamento non sfugge a questa regola. Nel campo della moda, le preferenze verso le novità possono poggiare sia su un bisogno di distinzione sociale, sia su esigenze di praticità e comodità, sia, infine, su un bisogno di identificazione sociale più ampio.
Quest’ultimo è il caso della moda del 1950 e dei primi anni Sessanta.
Sia in campo femminile che maschile i nuovi capi e le nuove fogge hanno anzitutto lo scopo di testimoniare il superamento definitivo della penuria bellica e post-bellica.
Come, ad esempio, è stato giustamente osservato “la novità di Christian Dior” fu accettata come una riconquista della femminilità, come una speranza di benessere.
Il Couturier realizza il Bar Suit, il completo composto dalla Bar Jacket e da un’ampia gonna a ruota, così chiamato perché doveva essere indossato per le ore di Cocktail trascorse nei bar dei grandi Hotel di Parigi.
Nasce così il New Look!
Il motivo vale la pena dirlo è “strutturale”.
La grande ripresa economica del dopoguerra, come d’altronde tutte le fasi di forte espansione economica, implica una ricomposizione del sistema di stratificazione sociale, in particolare un suo allargamento. Aumenta cioè, a tutti i livelli, la disponibilità di posizioni sociali, di posti da occupare; più posti tra la media borghesia e su in avanti fino ad arrivare a un allargamento delle stesse élite privilegiate. In conseguenza di questo aumento dell’offerta di posizioni sociali, tutti sono spinti a fare qualche passo avanti, a conquistare quindi una posizione migliore.
Ma è proprio questo processo di ristrutturazione a comportare un’accentuazione dei fenomeni di simbolizzazione della status.
Per essere socialmente riconosciuti, omologati, i passaggi di status richiedono infatti l’esibizione di una “prova”.
Diventano perciò importanti “i segni di riconoscimento” e questo spiega appunto perché, in questa fase di espansione economica, non solo assumono particolare valore i consumi, ma in tutti i consumi cresce la componente “posizionale”.
Gli anni 1950-1960 possono, in altri termini definirsi come gli anni della democratizzazione del consumo signorile, per quasi tutti i settori, dall’abbigliamento, all’arredamento dalle vacanze all’automobile. Nel settore della moda, la pelliccia fa la sua comparsa nel guardaroba medio e piccolo borghese, mentre nell’arredamento il mobile stile “svedese” comincia a inserirsi tra i pezzi “funzionali” dell’abitazione del ceto medio.
Il tennis e lo sci, simboli tradizionali dell’agiatezza vistosa delle classi superiori, acquistano una diffusione sorprendente, così come in campo automobilistico si passa dalla Fiat Topolino, prodotta dal 1936 al 1955, agognato oggetto del desiderio, acquistabile a 8900 Lire, 20 volte lo stipendio di un operaio specializzato, alla sua erede presentata il 4 luglio del 1957 la Nuova 500, una super utilitaria per tutti, con un costo di 490 mila Lire.
Lo stipendio medio era di circa 70 mila Lire al mese.
Dunque, nel consumismo di tutti gli anni Sessanta i fenomeni di distinzione cominciano ad assumere un peso dominante.
Il che non vuol dire che sono assenti altri tipi di motivazione al consumo; vuol dire solo che il problema di qualificare socialmente lo standard di vita raggiunto diventa la preoccupazione maggiore di quanti vanno beneficiando di un processo di mobilità ascendente. Si tratta di un fenomeno di notevoli proporzioni al punto che cominciano a sbiadirsi alcuni tradizionali confini tra ceto e strato.
Ma è proprio a questo punto che uno scossone altera profondamente il sistema di stratificazione che si era costituito in conseguenza del boom economico, modificando radicalmente le abitudini di vita, i consumi e il costume degli Italiani… gli anni Settanta!
Proprio nel momento in cui gran parte della piccola e media borghesia, riesce a conquistare un “vestito buono”, ma anche un “salotto buono”, la moda cambia radicalmente e, sotto la spinta delle note vicende giovanili sindacali e politiche di quegli anni, introduce “l’abito cattivo”, un tipo di abbigliamento, in altri termini, da cui viene cancellata ogni traccia del rigore formale che aveva caratterizzato gli outfit del periodo precedente.
Una mossa che spiazza completamente la nuova piccola borghesia del benessere e i nuovi ceti medi emergenti, provocando non poco astio e frustrazione in gran parte della popolazione e aprendo la strada alla spaccatura generazionale che caratterizzò tutti gli anni Settanta. Quello che infatti era stato il sogno di una intera generazione, vestire da signore, sfuma completamente nel momento in cui i signori modificano le regole del gioco e cominciano a vestire da poveri.
Così l’abito buono, ordinato, stirato, lindo e compatto cede il passo, nel giro di qualche anno, a quello vecchio, sgualcito, povero, dimesso, liso, disordinato o incoerente.
Per essere ora alla moda bisogna in pratica rinnegare i canoni estetici del perbenismo borghese, assumendo un tono di ostentata sciatteria e di visibile estraneazione dagli obblighi del quotidiano e dalle regole della vita tradizionale borghese.
Così la barba folta, la tracolla, le polacchine, i jeans, il velluto, l’eskimo diventano i nuovi capi alla moda e i simboli di un nuovo status sociale, mentre in campo femminile la nota sequenza mini-maxi -midi non è che l’inizio di una sconfinata serie di innovazioni e di invenzioni vestimentarie in cui, in pratica, si verifica tutto quello che ragionevolmente si poteva verificare.
Come è noto, sono i giovani i primi protagonisti di questa clamorosa svolta nel costume, mentre adulti e ceti subalterni restano confinati, almeno inizialmente, nel mondo ordinato del perbenismo borghese. Un’alleanza quindi tra classi e generazioni, che, iniziata ludicamente nel settore moda, si estenderà rapidamente a tutti gli altri consumi, provocando poi cambiamenti di rilievo nei comportamenti, nelle opinioni e negli atteggiamenti di una larga parte della popolazione.
A essere infatti povero, malandato e infine casual non è soltanto l’abbigliamento, nel campo dell’arredamento accade esattamente la stessa cosa, si afferma l’estetica delle cose vecchie, di poco valore, disposte senza un ordine preciso e con ostentata disaffezione.
Ma anche la casa povera, diventa di moda, e lo stesso vale per le automobili, si afferma quella spartana, tecnologicamente debole, come la Renault 4.
Una svolta radicale non s’era mai vista ed è chiaro che anche essa nasce da mutamenti strutturali, come l’aumento della scolarizzazione di massa.
I nuovi schemi di preferenze sorti con il 1968 riclassificano in pratica l’intera popolazione.
Alla logica sociale tradizionale del muoversi socialmente accumulando e ostentando, si sostituisce infatti la logica opposta del muoversi sotto consumando.
La differenziazione può assumere la forma del rifiuto degli oggetti, del rifiuto del consumo e questo è ancora il massimo della finezza del consumo.
Si può dire che il grande boom della moda degli anni 1980, degli stilisti sia stato possibile proprio perché la grande diffusione di questa moda non comprometteva il sistema di stratificazione sociale. In questo periodo, la moda ha infatti questo di straordinario, non incide più sulle posizioni di Status, è puro gioco, spettacolo, divertimento.