L’uomo è un animale competitivo. Ha bisogno di dimostrare di essere il migliore, sempre. Nel lavoro, negli affetti, nella vita di tutti i giorni.
Gli antichi greci erano il popolo più competitivo di sempre – e questo spiega anni di guerre fratricide e l’esistenza di tante poleis indipendenti – e non è un caso che proprio presso di loro furono fondati quelli che, ancora oggi, sono un simbolo del superamento dei limiti fisici: i giochi olimpici. Le Olimpiadi di Parigi 2024 sono le eredi di una storia lunghissima, che hanno tentato, con scarso successo, di ricordare nella cerimonia di apertura.
Una storia che ebbe inizio nel lontano 776 a.C.
I giochi olimpici antichi furono celebrazioni atletiche e religiose, che si svolgevano ogni quattro anni, nella città sacra di Olimpia, dal 776 a.C. al 393 d.C., quando vennero bandite dall’imperatore romano Teodosio. Le prove erano disputate in onore di Zeus, protettore dei giochi e padre del mitico fondatore delle gare, l’eroe Eracle.
Stando al racconto mitico più diffuso, Eracle, dopo la sua settima fatica, per ringraziare suo padre Zeus, decise di fondare, presso la tomba dell’eroe Pelope, i giochi che avrebbero dovuto essere tenuti in onore del Re degli dei ogni quattro anni, e all’inizio consisteva solo in una gara di corsa.
Un’altra versione meno conosciuta vuole invece che a fondare i giochi fosse stato lo stesso Pelope, per espiare la morte del suocero Enomao, ucciso appunto durante una gara di corsa per avere come premio la mano della figlia del re, Ippodamia.
Abbiamo più certezze sulle origini mitiche dei giochi, mentre per quanto la realtà storica brancoliamo ancora nel buio. Tra i dati certi, sappiamo che è dall’VIII secolo a.C. che i giochi si svolgevano ad Olimpia, sede di un importantissimo santuario dedicato a Zeus. Le gare avevano inizio dal secondo o dal terzo plenilunio dopo il solstizio d’estate.
Dapprima i giochi prevedevano una sola gara, lo stadion, la corsa a piedi; poi si aggiunsero il pentathlon, gara articolata su cinque prove (corsa, salto in lungo, lancio del disco, lancio del giavellotto, infine la lotta), poi il pugilato, la lotta, il pancrazio, le corse con i carri, il lancio del giavellotto e il lancio del disco, finché il numero delle gare crebbe sino a venti, e perciò i giochi si protraevano per cinque giorni.
Gli atleti erano di condizione libera, maschi e, inizialmente, solo greci: dall’età romana potevano provenire da tutti i territori dell’Impero.
Grazie a Pindaro, poeta di Tebe che ebbe un legame profondo con i giochi olimpici, conosciamo il nome di molti atleti, tra cui alcune sorprese: scopriamo che il tiranno Ierone di Siracusa vinse nella gara del coriero (il celete), Agesimando di Locri vinse da ragazzo, durante le 74° Olimpiadi, le gare di pugilato, Senofonte di Corinto, corridore dello stadio, nello stesso giorno vinse nella corsa e nel pentathlon (e, ancora più incredibile, non morì dopo), e così via.
Tutti vincitori, tutti medaglie d’oro diremmo oggi. Nessun componimento però per chi arrivava secondo o terzo. L’importante era solo vincere.
La cerimonia di apertura prevedeva un solenne giuramento di rispetto delle regole da parte degli atleti, anche se non rari furono i tentativi di broglio: ben noto, in negativo, la storia di Eupolo di Tessaglia, protagonista del primo caso di slealtà sportiva nella storia delle Olimpiadi.
La storia ci viene raccontata da Pausania nel suo Periegesi della Grecia: Eupolo partecipò alle gare del 388 a.C. e, per essere sicuro di vincere, corruppe tre pugili avversari, tra cui Formione di Alicarnasso, già vincitore in una precedente edizione.
Tuttavia, a destare sospetti fu la facilità con cui gli avversari si lasciarono mettere k.o. e la corruzione venne subito scoperta.
La punizione per i quattro pugili coinvolti fu una multa salatissima, e grazie al ricavato vennero erette, di fronte allo stadio di Olimpia, sei statue bronzee in onore di Zeus, ad imperitura memoria di quell’episodio.
Si penserebbe che, dopo una cosa simile, pur di evitare la vergogna, nessun altro atleta tentò di forzare la mano alla sorte. Invece, ci furono altri casi. Uno dei più noti fu quello del pentatleta Calippo, che nel 332 a.C. aveva corrotto, come Eupolo, il suo avversario, e venne perciò multato dai giudici.
Calippo era di Atene, e gli ateniesi mandarono l’oratore Iperide per convincere i giudici a togliere la multa. Tuttavia la colpa era chiara e, piccati, gli ateniesi minacciarono di boicottare i giochi. Fu a seguito della minaccia dei sacerdoti delfici di non offrire più il loro oracolo se si fossero ostinati, che gli ateniesi furono costretti a cedere e a pagare la multa e, col ricavato, già come in precedenza, furono costruite delle statue di fronte allo stadio di Olimpia.
Ma perché c’erano atleti pronti a rischiare la vergogna e l’umiliazione di essere scoperti pur di vincere? Dopotutto, i vincitori ricevevano in premio solo una corona d’ulivo. Non doveva essere un motivo sufficiente per giocarsi la reputazione. Ma i giochi erano più del premio, almeno all’inizio.
Il successo garantiva gloria e fama in tutta la Grecia, la vera immortalità di uomini che, per un giorno, si avvicinavano agli eroi antichi.
Per quello valeva la pena di rischiare tutto, anche la propria dignità. Per un assaggio di eternità.
Nonostante la volontà dell’imperatore Teodosio, responsabile della fine dei giochi olimpici nel IV secolo d.C., considerati contrari ai valori cristiani, i giochi non furono mai dimenticati del tutto, e grazie al barone Pierre De Coubertin rinacquero nel 1896. Invece della tomba di Teodosio si è perso da secoli la memoria.















