I personaggi pubblici fanno parte delle nostre vite perché conosciamo le loro e, inevitabilmente, si crea un legame. Con quelli che amiamo particolarmente sembra di parlarci, o lo vorremmo fare, o l’avremmo voluto fare… Ci sono personaggi che vediamo come eroi, soprattutto per come vivono o hanno vissuto la vita: esempi di rettitudine e coerenza e che la morte non può cancellare. Il 22 gennaio del 2024, nel cielo sardo è risuonato per l’ultima volta il rombo di tuono, accompagnato dal pianto di un’intera regione per il sardo che non era sardo, ma che era il più sardo di tutti.
Gigi (Luigi) Riva approda alle rive sarde nel 1963, dopo che l’allenatore del Cagliari Arturo Silvestri e il vicepresidente Andrea Arrica lo acquistano per 37 milioni di lire. Arrivava da Leggiuno, città sulle sponde del Lago Maggiore, portandosi addosso il fardello della povertà e di un’infanzia e adolescenza difficili: a 9 anni perse il padre per un infortunio sul lavoro in fabbrica e a 16 anni la madre per cancro. Venne cresciuto dalla sorella, maggiore di 12 anni con cui arrivò a Cagliari… E da qui, Gigi Riva non volle più andare via, non solo calcisticamente. Nella Sardegna non trovò una terra adottiva, ma la sua terra, la terra madre e nei sardi dei conterranei dallo stesso carattere riservato e schivo.
Ricordo perfettamente la sera in cui è morto, in cui il suo sorriso malinconico si è spento insieme alla sua sigaretta, compagna di una vita. Si sapeva, da poche ore, che aveva avuto un malore e andavo di sito in sito a cercare notizie. Lo vedevo immortale, come tutti gli eroi, ed era impossibile che il pallone entrasse in rete per abbandonare la partita della vita. Lui è Gigi Riva, lui è Gigi Riva anche per me che non ho mai capito niente di calcio!
“Nel nostro cielo un rombo di tuono”: i pianti di tutti i sardi, nelle case, nelle strade, nei bar, negli ovili, nei campi da golf, nelle barche da pesca… Il pianto di un’intera regione che lo ha amato profondamente, non solo per aver dato lustro alla nostra squadra, il Cagliari, ma soprattutto perché lui ci ha amato visceralmente. Sentendosi sardo in ogni fibra della sua testa e della sua anima, sentendosi pastore, facendosi prima “spaventare” e poi conquistare dall’arretratezza di un’isola, isolata - non solo geograficamente - dal “continente”, da tutto l’ignoto al di là del mare.
L’altro mondo per noi, il mondo delle grandi fabbriche, dell’industria, del lavoro. La Sardegna era arroccata nelle sue vetuste tradizioni e superstizioni, logorata dalla miseria e da malattie endemiche, incattivita dai sequestri di persona che gettavano fango sull’isola, agli occhi delle altre regioni, più di quel fango di cui erano fatte le strade e i pavimenti delle case.
Erano gli “anni d’oro” e d’orrore del banditismo sardo, dell’Anonima Sequestri, a cui era assoggettata, spesso suo malgrado, la regione intera. E l’esponente più temibile, la Primula rossa, Graziano Mesina, si dice che, dal Supramonte, discendesse a Cagliari la domenica quando la squadra giocava in casa - travestito o da frate o da donna - per ammirare solo lui: Gigi Riva che, vestendo anche la maglia della Nazionale, divenne una vera e propria icona per tutta l’Italia. Bello come un Dio greco (come venne definito) conquistò un posto anche nel costume e nella musica dell’epoca grazie ad una simpatica canzone di Raffaella Carrà, star televisiva del momento.
Gigi Riva, arrivato a Cagliari, in Sardegna, quando la regione era considerata luogo di punizione (ad es. per i trasferimenti lavorativi), una terra aspra e ancora poco accogliente, ha invece voluto sposarla e gli è rimasto fedele fino all’ultimo respiro, esalato nel reparto di Cardiologia dell’ospedale Brotzu di Cagliari.
Ha regalato tanti goal alla Nazionale, nel 1970 ha fatto il dono calcistico più bello alla sua isola: lo scudetto del Cagliari, l’unico nella sua storia. È stato per tutti un esempio di coerenza, integrità ed umanità: non ci ha mai abbandonato nonostante squadre importantissime se lo contendessero e lo volessero con loro. Non gli è mai interessato arricchirsi e, ripetutamente, ha dichiarato di non voler lasciare mai la Sardegna. Non ha mai abbandonato gli amici e non si è mai fatto un nemico.
Neanche dopo l’azione fatale del 1976 ha serbato rancore per chi l’ha procurata: “Sono cose che fanno parte di questo lavoro” diceva. Il 1° febbraio del 1976 il difensore del Milan, Aldo Bet, durante un fallo, gli provocò un grave strappo muscolare all’adduttore destro. Ingessato dal collo alle ginocchia, la prima notte di ospedale fu tanto terribile che disse: “Se avessi avuto una rivoltella a portata di mano, mi sarei ucciso”. E nel 1977, a 32 anni, l’addio al calcio giocato di “Rombo di tuono”, appellativo datogli dal giornalista e scrittore Gianni Brera per la potenza (anche sonora) del suo modo di calciare.
Gli artisti si trovano in tutti i campi: Gigi Riva lo è stato nella professione, col suo tocco unico, singolare, e lo è stato nella vita per aver saputo colorare quelle degli altri anche quando si stava spegnendo. Gigi Riva è, non era, un poeta del calcio; come disse Pier Paolo Pasolini:
Riva gioca un calcio in poesia. Egli è un ‘poeta realista’.