Le arti marziali sono diventate una vista comune del panorama culturale odierno, al pari dei ristoranti giapponesi, o sedicenti tali, degli anime, dei manga.

Il mio incontro con le arti marziali è stato completamente fortuito. Un semplice colpo d’occhio su una brochure dei corsi offerti da una polisportiva locale. Di lì a poco la mia vita non sarebbe stata più la stessa. Quella scelta, e le conseguenze di quella scelta, riverberano attraverso la mia vita fino ad oggi, e nel futuro per quanto lo posso osservare.

Sono stato un praticante entusiasta fin dal principio, e di conseguenza anche un praticante ingenuo. C’è un aspetto positivo nell’ingenuità: l’individuo oppone minore resistenza e apprende più velocemente. L’aspetto negativo è che apprende qualunque cosa, senza farsi troppe domande.

La bellezza delle arti marziali e della cultura di cui sono una espressione si presta facilmente ad essere “interpretata”, mistificata, o anche completamente stravolta. Talvolta è per mancanza di conoscenza, talaltra per scopi meno nobili di interesse personale. Chi legge di questi argomenti non può fare a meno di notare il ricorrere di parole come “segreto”, “esoterico” e simili, come se la pratica delle arti marziali dovesse essere considerata un percorso iniziatico a cui accedere per grazia del maestro, e non un cammino di crescita personale come individuo parte di una società. Come se, parafrasando il Libro dell’Apocalisse, molti fossero i chiamati, ma pochi gli eletti.

L’ho sempre trovata una posizione fondamentalmente antidemocratica e in forte contrasto con lo spirito e la natura dell’insegnamento delle arti marziali tradizionali. La tradizione, per sua stessa natura, presuppone un’origine, una maturazione e una trasmissione, specie delle parti più complesse e difficili. Se così non fosse, quelle parti andrebbero perdute, e con esse il patrimonio di conoscenza ed esperienza che le rende accessibili.

Allo stesso modo non ho mai amato particolarmente le competizioni, e non tanto per via dei risultati (all’epoca sono stato tutt’al più un jūdōka mediocre), quanto perché la competizione implica che uno vinca e tutti gli altri no, e non mi sembrava quello lo scopo per cui mi ero avvicinato alla disciplina, né quello che me la rendeva così interessante.

Dunque, la domanda fondamentale: esiste del contenuto esoterico nelle arti marziali? La risposta è: generalmente, no. Non se lo si intende come un insegnamento segreto di eccezionale efficacia disponibile solo ad alcuni iniziati. Ci sono due ragioni per il mio scetticismo. Il primo è che pur essendo un appassionato di mitologia e religione, sono fermamente convinto della necessità di indagare queste cose a partire da un approccio riduzionista, cercando la soluzione più semplice a parità di fattori. Quello che in filosofia si chiama il Rasoio di Occam. Non è accurato al 100%, ma è decisamente meglio di abbracciare acriticamente un concetto o un pensiero solo perché sembra invitante. Il secondo è che le arti marziali giapponesi, specie quelle moderne, sono state influenzate dal pensiero Zen, e questo gusto sensazionalista per il segreto e l’esoterico è in contrasto con il suo insegnamento.

Rispetto alla teoria della conoscenza, o epistemologia, lo Zen tende all’empirismo: la conoscenza, per essere davvero tale, deve passare per l’esperienza diretta dell’individuo. Diversamente, rimane tutt’al più qualcosa di teorico o astratto. Una delle metafore usate per illustrare il punto è la seguente: si può parlare dell’acqua a un assetato finché si vuole, ma la sua sete si spegne solo nel momento in cui beve dell’acqua davvero. Allo stesso modo, si può spiegare qualsiasi argomento in dettaglio e con la massima cura, ma per conoscerlo davvero deve esserne fatta esperienza in prima persona. La parola, specialmente la parola scritta, non è sufficiente. Questo è descritto dall’espressione Zen 不立文字 “le parole scritte non sono utili”.

Cosa ha a che fare questo con la pratica delle arti marziali e con i supposti “segreti” in esse contenuti? Il principio è identico: si può leggere la descrizione di un colpo, di una tecnica, di una forma, ma fino a quando non la si è studiata nella pratica attraverso i movimenti del proprio corpo, e applicata in allenamento con un compagno, si conosce solo quello che si è letto. La memoria di ciò che si è appreso a livello cognitivo non si traduce automaticamente in memoria muscolare.

In altre parole, la natura empirica della conoscenza autentica è la vera difesa contro la diffusione dei “segreti” di un determinato stile o di una determinata corrente. Quindi la vera lotta è la lotta tramite se stessi, e il vero maestro è in sé stessi. È questo che si intende con il celebre kōan dello Zen Rinzai 逢佛殺佛 “se incontri il buddha, uccidi il buddha”. La soteriologia buddhista, cioè la salvezza dalla sofferenza, è in ultima analisi interamente responsabilità dell’individuo. Il buddha ha indicato il cammino verso la liberazione dalla sofferenza, ma è l’individuo che deve intraprenderlo e portarlo a compimento.

Lo stesso vale per le arti marziali. La presenza di un maestro esterno è utile e auspicabile per “iniziare” l’allievo sul cammino di una determinata disciplina, diversamente ogni generazione dovrebbe ricominciare da capo. Prendendo a prestito il lessico della tradizione occidentale, il maestro è il “mistagogo” che conduce l’allievo verso l’esperienza tramite la quale l’allievo si trasforma in mustés, “colui che vede”. Tuttavia, lo sforzo autentico, il sudore fisico e la stanchezza della mente e dello spirito attraverso le quali l’individuo si forma tramite la pratica, sono un fatto puramente personale.

Se è così, qual è lo scopo finale della pratica dell’arte marziale? Mi sono chiesto spesso per quale motivo, nel Kōdōkan jūdō, ai maestri di grado più alto viene data una cintura bianca, esattamente come ai principianti assoluti.

Carl Jung ha indicato il compito supremo dell’essere umano con il termine di “individuazione”. Nel contesto di Jung, individuazione significa che l’essere umano diventa se stesso integrando dentro di sé la propria parte luminosa e la propria parte oscura, la propria Ombra. Quella parte di sé al di fuori del proprio controllo cosciente, quella che l’individuo solitamente non vuole vedere. La pratica dell’arte marziale, il combattimento effettivo, anche se governato da un sistema di regole concepite per preservare l’integrità di se stessi e del proprio compagno, presuppone l’acquisizione di una crescente consapevolezza. Parte di questa consapevolezza è il sapere che cosa si è in grado di fare, e che si potrebbe essere in grado di fare, applicando le tecniche che si sono apprese senza l’etica e la disciplina che ne sono la necessaria controparte. L’Ombra viene conosciuta e integrata soprattutto nella fatica e nella sconfitta.

Il risultato finale della pratica è un ritorno alla condizione dell’allievo inesperto, disponibile verso l’esperienza, concentrato unicamente sul momento presente, unicamente su ciò che si fa in quell’istante. A questo, il praticante esperto giunge dopo avere percorso il cammino dell’esperienza abbastanza a lungo da far sì che l’esperienza diventi parte integrante del suo essere. Dopo avere, parafrasando Jung, integrato la pratica dell’arte marziale fino a ricostituire la propria condizione iniziale. Questa ricostruzione di una condizione iniziale ideale è equivalente al concetto di apocatastasi nella teologia cristiana. L’individuo si è formato fisicamente e psicologicamente al punto da affrontare l’esperienza in modo non dualistico, senza esercitare la propria preferenza verso una cosa invece di un’altra, accogliendola così che essa si presenta. In questo è da ricercarsi, se proprio lo si vuole fare, il “segreto” insito nella pratica dell’arte marziale.