Come tutti sappiamo dalle nostre reminiscenze liceali (o da precedenti articoli, per i lettori più attenti), la matematica è un edificio costituito da mattoncini che chiamiamo teoremi. Perché un teorema sia accettato come vero e entri a far parte dell’edificio, esso deve essere dimostrato: bisogna far vedere che discende logicamente da altri teoremi o dagli assiomi, che sono le “fondamenta” del nostro edificio. Dunque, l’intero edificio matematico è stato costruito, e continua a espandersi, a forza di dimostrazioni: dimostrare è per i matematici quello che posare i mattoni è per un muratore.

Più che un mattone, per un matematico, una dimostrazione è un piccolo viaggio: ci si riempie lo zaino di bagagli, lemmi, proposizioni e teoremi già noti, e si si cerca di mettere un passo dietro l’altro, un’implicazione logica dopo l’altra, per arrivare da un punto di partenza, le ipotesi, a una meta, la tesi. Spesso, ci si ferma e si fa una piccola deviazione in cerca di qualcosa che avevamo scordato e, ancora più spesso, ci si trova il sentiero sbarrato e si è costretti a tornare indietro e a cercarne un altro. Ogni tanto, si parte e si arriva in un posto diverso da quello preventivato, ma in ogni caso, una dimostrazione corretta avrà aperto un sentiero, che altri potranno ripercorrere per andare dalle ipotesi alla tesi.

Proprio come per i sentieri, però, non tutte le strade sono uguali, e per questo, in quello che sembra un eterno gioco a riscoprire l’acqua calda, i matematici continuano a cercare nuove strade anche per punti già collegati da altre dimostrazioni. Per il teorema di Pitagora si contano quasi 400 dimostrazioni diverse, per quello dell’infinità dei primi, almeno 200.

Perché dimostrare di nuovo qualcosa di cui già si è accertata la verità? “Perché è divertente”, diranno alcuni matematici, e, sapendo già di che strane creature si tratti, non ci sentiamo certo di contraddirli. Ma dimostrare un risultato già noto con una tecnica diversa spesso ne mette in luce aspetti diversi, lo collegano a nuovi concetti, che precedentemente sembravano scollegati, e a volte mostrano diverse proprietà degli stessi oggetti. Insomma, avere più dimostrazioni ha una sua utilità, oltre che un suo diletto.

Tra le varie dimostrazioni di uno stesso risultato a volte una in particolare viene riconosciuta dalla comunità come “più bella” o “più elegante” delle altre. Continuando con l’analogia del viaggio, è un po’ come trovare un sentiero di montagna con una vista panoramica, tra tanti sentieri anonimi che costeggiano la strada asfaltata. Ma, mentre per un sentiero è relativamente facile dire cosa lo rende più bello degli altri, per le dimostrazioni matematiche è più difficile, anzi, più di una persona mette in dubbio che una qualunque forma di matematica possa definirsi “bella”. Eppure, i matematici dissentono, e cercheremo di capire perché.

La bella matematica

Quando si parla di bellezza matematica è impossibile non citare Godfrey Harold Hardy e il suo “Apologia di un Matematico”. Hardy è stato uno dei grandi nomi della matematica della prima metà del ‘900, teorico dei numeri e analista. A lui si deve una fruttuosissima collaborazione con Littlewood, tanto che i due sono passati alla storia come l’inscindibile duo “Hardy-Littlewood”. Tra le sue eccentricità, quella di condurre una personalissima guerra con Dio, pur essendo ateo (e come vedremo non è stato l’unico matematico ad avere avuto una posizione simile).

L’Apologia è un opuscolo di appena una cinquantina di pagine, ma è un libro caro a tutti i matematici. In essa Hardy riflette su cosa voglia dire essere un matematico nel senso più puro e creativo del termine, e su quali siano i criteri estetici della matematica. Il decimo paragrafo dell’apologia, è un vero e proprio manifesto artistico, infatti inizia con le parole “Il matematico, come il pittore e il poeta, è un creatore di forme”. Poco più avanti continua con “Le forme create dal matematico, come quelle create dal pittore o dal poeta, devono essere belle. [...] La bellezza è il requisito fondamentale: al mondo non c’è posto perenne per la matematica brutta”.

Ma qual è la matematica “bella”? Per Hardy, come per tutti gli altri tipi di bellezza, è difficile definire un criterio, ma non bisogna cadere nel pregiudizio per cui apprezzare la bellezza matematica è “una monomania per pochi eccentrici”.

Tentando di definire cosa distingue le idee e le dimostrazioni matematiche belle, Hardy parte dalla significatività. Per lui, l’importanza di un concetto all’interno della teoria matematica lo rende più bello rispetto a semplici curiosità e risultati minori. Alla significatività sono legate la generalità di un risultato, cioè la possibilità di avere un impatto in contesti diversi da quello in cui viene formulato, e la sua profondità, legata alla complessità del concetto e al legame con altre idee matematiche. Altri criteri sono l’imprevedibilità, l’economia e l’inevitabilità di una dimostrazione, cioè il modo in cui questa giunge alla conclusione in maniera inaspettata e in pochi passaggi logici auto-evidenti.

Una bella dimostrazione

Quale sarebbe una dimostrazione “bella”? L’esempio riportato da Hardy è uno dei teoremi per cui oggi si contano centinaia di dimostrazioni diverse: il Teorema di Euclide, che afferma l’infinità dei numeri primi. I numeri primi sono quei numeri divisibili solo per 1 e per se stessi, come 2, 3, e 5. Il numero 26 non è un numero primo, infatti è divisibile per 13 e 2 che invece sono primi. In generale, ogni numero non primo può essere scritto come una moltiplicazione tra numeri primi.

Per mostrare che esistono infiniti numeri primi, Euclide suppone che questi siano un numero finito e di avere una lista che li contiene tutti in ordine: 2,3,5,... fino ad arrivare a un certo primo P, il più grande esistente. A questo punto, costruisce un nuovo numero, che possiamo chiamare Q, moltiplicando tutti i numeri sulla lista e aggiungendo 1, cioè Q è data da 2 x 3 x 5 x … x P +1.

Euclide osserva che possono succedere due cose: o Q è primo o non lo è. Nel primo caso avremmo una contraddizione perché Q sarebbe un numero primo più grande di P, che abbiamo supposto essere il più grande numero primo esistente. Nel secondo caso, Q dev’essere divisibile per un numero primo, eppure non è divisibile per nessun numero nella nostra lista perché, se provassimo a dividere Q per uno di quei numeri, otterremmo sempre resto 1. Dunque, Q sarebbe divisibile per un primo che non figura sulla lista, ma questa sarebbe un’altra contraddizione, perché abbiamo supposto che la nostra lista contenga tutti i primi. L’unica conclusione possibile è che l’ipotesi di partenza, cioè che i numeri primi siano finiti, è falsa: i numeri primi devono essere infiniti, come volevasi dimostrare.

Sulla significatività di questo teorema c’è poco da dire: è un mattone fondamentale dell’aritmetica e pur essendo stato dimostrato negli Elementi più di 2300 anni fa, è ancora studiata nei corsi di algebra. Per avere più contezza della sua generalità e profondità bisognerebbe addentrarsi nei complessi meandri dell’algebra, ma basti sapere questo teorema spalanca le porte a tutte le domande che hanno come oggetto i numeri primi e quasi tutti avremo sentito parlare della celebre Ipotesi di Riemann, che resiste indimostrata da 165 anni e da cui dipendono moltissimi problemi aperti della matematica.

Inoltre, la dimostrazione per assurdo è di per sé forse il più imprevedibile tra i metodi dimostrativi: a chi viene in mente, per mostrare che qualcosa sia vero, supponendo che invece sia falso? È economica e inevitabile: ci porta alla conclusione con pochi passaggi logici perfettamente chiari anche se non siamo teorici dei numeri. Insomma, nella sua semplicità la dimostrazione di Euclide è un perfetto esempio di bella matematica, e, non a caso, è la prima delle dimostrazioni riportate nel Libro di cui parleremo tra poco.

Il Libro sacro delle belle dimostrazioni

Esiste, secondo Paul Erdős, uno dei matematici più prolifici del secolo scorso (1485 articoli scritti in 83 anni di vita), un Libro celestiale, in cui Dio conserva tutte le più belle dimostrazioni di ogni possibile teorema matematico.

Proprio come Hardy, Erdős non era un credente, ma aveva un’idea alquanto singolare di Dio, da lui chiamato il Fascista Supremo (Supreme Fascist). Per quanto ne sappiamo, non fu mai realmente convinto dell’esistenza del Fascista Supremo, ma lo era dell’esistenza del Libro. “Non si deve credere in Dio, ma si dovrebbe credere nel Libro” (“You don’t have to believe in God, but you should believe in The Book”), amava ripetere ai colleghi.

Tanto ci credeva, che alla fine due suoi colleghi tedeschi, Martin Aigner e Günter Ziegler, decisero di tentare un’approssimazione terrena del Libro. Ovviamente anche Erdős fu messo a conoscenza del progetto, e ne fu entusiasta. Il libro sarebbe stato presentato in occasione del suo ottantacinquesimo compleanno, nel 1998, ma sfortunatamente Erdős morì due anni prima che la prima edizione, a lui dedicata, vedesse la luce.

Il Libro o, meglio, “Proofs from THE BOOK”, oggi è giunto alla sua sesta edizione, che a detta degli autori, sarà l’ultima. Raccoglie 45 dimostrazioni divise in 5 argomenti. Per stessa ammissione degli autori, non esiste un criterio preciso che caratterizzi le dimostrazioni nel libro, ma la scelta è stata pesantemente influenzata dalle idee di Erdős, tanto che molte dimostrazioni discendono, in maniera diversa, dai suoi lavori. Pur essendo, nelle intenzioni degli autori, mirate a qualunque lettore con una conoscenza elementare della matematica, molte dimostrazioni del Libro richiedono una conoscenza della matematica almeno di livello universitario.

Ma, nonostante l’intrinseca difficoltà, “Proofs from THE BOOK”, come “Apologia di un matematico”, rimangono stupende dichiarazioni d’amore nei confronti della matematica pura, quella che trova un fine in se stessa e che da millenni regala, a chi ha la pazienza di scoprirla, un piacere estetico e intellettuale unico nel suo genere. La speranza è che questo fascino esca dai libri e arrivi anche nella nostra vita di tutti i giorni.