La linea di demarcazione che unisce il lavoro pittorico di Angelo Noce e Sergio Vecchio è data dalla rappresentazione archetipica o mitologica di un passato ancora vivo nella memoria. Per i nostri due artisti, è un’esigenza che corrisponde a un profondo bisogno interiore: dare cioè risposta alla deriva e allo smottamento delle immagini dell’arte contemporanea disperse in un’addensata nebulosa senza più precisi confini. Ma, ancor prima di questo trasporto, essa nasce da una simbolizzazione del reale: dalla necessità di ripensare e di intercettare, senza nessuna pretesa totalizzante, tutte quelle risoluzioni che sono servite da fondamento alla civiltà occidentale. Ripensamento che beninteso non significa negare quanto finora la ricerca artistica ha avanzato in ogni campo della cultura ma, di contro, riportare quest’ultima all’interno del processo immaginativo-espressivo come condizione di un’esternazione, nel suo stesso manifestarsi, di nuovi tessuti e trame d’interpretazione che riguardano il rapporto tra linguaggio ed essere.
A fondamento di questo processo non c’è più la pretesa di codificare nuovi valori oggettivi, validi per tutti. La consapevolezza della fine della storia, intesa come processo lineare continuo di progresso, è un dato ormai acquisito e porta con sé l’intima certezza di muoversi all’interno di una nuova koinè linguistica, costituita dalle molteplici esemplificazioni produttive esistenti, strettamente dipendenti dal vedere e sentire di ciascuno di noi, quale sia il risultato sul piano dell’universo semiotico che si agita al fondo delle singole produzioni artistiche. La matrice di partenza dei nostri due artisti, quindi, non va intesa come “calco” archeologico, né come ripristino “di conoscenze storiche, artistiche e di pensiero politico”, secondo quanto scriveva Massimo Campigli nel 1940 per l’affresco del Liviano a Padova, ma è l’esternazione di un proprio “sogno”, lungamente vissuto e rivissuto, con il proposito di ricercare all’interno della propria psiche l’intimo sentimento di abbandono e di estasi che nasce dall’opera d’arte.
Larari, puzzle di affreschi, tempietti, figurine di vestali, trompe l’oeil di fontane, etc. sono un armamentario di frammenti interiori, a lungo evocati e sognati, che, riproposti con preziosi simbolismi, rimandano a una comune ascendenza intellettuale. Da qui il continuo comporsi e decomporsi di rappresentazioni archetipiche che si confrontano e si mescolano nei recessi dell’inconscio in un sistema di insiemi infiniti. Un sistema che, secondo Matte Blanco, si apre su nuovi possibili mondi, dove non c’è nessun limite all’immaginazione poiché essa è strettamente connessa alle proprie esigenze espressive, dispiegate in modo da far emergere il proprio “essere eterogeneo e divisibile, basato sulla capacità della coscienza di stabilire relazioni asimmetriche” [cfr. Ginzburg A. – Lombardi R., L’emozione come coscienza infinita. Matte Blanco e la psicoanalisi contemporanea, Milano 2007, p. 241]. Ed è proprio questa capacità di libera interpretazione che consente ai nostri due artisti di calarsi dentro se stessi, nelle proprie emozioni e nelle infinite connessioni e rapporti tra segni e materia pittorica che si stabiliscono all’interno delle proprie fantasmatiche visioni, senza per questo cadere in facili gerarchie di confronto o in modelli precostituiti. Da qui i continui flussi e ritorni evocativi, il persistente richiamo “tra il reale e l’immaginario” a una persistente “sensazione d’instabilità” che produce in ciascuno di noi uno stato di inquietudine che “ci attrae misteriosamente e risveglia la nostra curiosità” [ibidem, p. 242].
In Angelo Noce l’attrazione nasce dal respiro della materia pittorica, presente in ciascuno dei suoi cicli. In Derive prima e poi in Migrazioni, in Semi di memoria, in Rotte di terra e in Fabula si assiste a un complesso insieme di vive immaginazioni, sostenute da un denso svolgersi del colore che si apre ai sussulti e ai sommovimenti dell’anima. Ciò gli consente di ricomporre, dopo un lungo processo d’investimento e di continui fraseggi dalle mille sfaccettature, la sua frammentata memoria come tempo liberato attraverso i vari passaggi da un ciclo all’altro. Nella corposa struttura materica delle forme amebiche di Derive il tempo appare sacralizzato in un frammento; in Semi di memoria raccolto in forme enigmatiche e in plurivalenze di segni linguistici; in Rotte di terra e in Migrazioni sospeso nelle tracce dei colori; in Fabula in un esteso corpo di raffigurazioni oniriche che ritraducono, con intensità emotiva, l’autonoma memoria di una lontana immaginazione espressiva. Il passato, se passato si può chiamare il suo procedere asimmetrico, assorbe lo sguardo per intero. Nella sua elaborazione pittorica il colore ha una forza determinante: è come vedere un aquilone fluttuare liberamente nell’aria.
Ci ammalia e ci sorprende per la varietà e la facilità dei movimenti, per le fratture, per le marcate cesure, per i condensati tagli realizzati da felici condensazioni cromatiche e da persistenti sorprese evocative. È come se davanti ai nostri occhi si ricostituisse un mondo che credevamo perduto. Il passato, sospeso in un eterno presente, ritorna a vivere, a pulsare e agire dentro di noi, facendo riaffiorare dal fondo della memoria un antico “territorio narrante”. Ciò avviene attraverso l’attenta e misurata carica energetica del gesto e del colore che riescono a dare respiro alla materia e a far rivivere un qualcosa che sta tra il qui e l’altrove, tra il conscio e l’inconscio, tra il dentro e fuori di noi. Nei lavori recenti, questo dispiegarsi dei colori è particolarmente segnato dalle tonalità trasparenti, dai toni leggeri, direi del tutto aerei e immateriali. I colori ocra, rossi, azzurri si collocano e si raccolgono nello spazio come se volessero accogliere le loro mille risonanze interiori. Da qui anche l’universo frammentato di figure, le finestrature dei tempietti, le storie racchiuse nelle pieghe dei riquadri che, sebbene ridotte a lacerti, ci parlano di un altrove, di un modo cioè di aprirsi e di essere dentro se stessi come ci hanno insegnato Nietzsche e Freud. Il riferimento di Noce agli aspetti formali degli affreschi pompeiani è pertanto ininfluente, è una libera interpretazione. Il suo è un “velario di ombre e luci”, un lungo viaggio nel labirinto della coscienza che parte dal fondo oscuro dell’anima. Ciò gli consente di disseppellire i ricordi dalle macerie del Tempo, liberarli da ogni incrostazione storica o filologica per riproporli come “estasi ineffabile dell’esperienza”.
Diverso è il trasporto memoriale presente nei lavori di Sergio Vecchio. Le sue immagini nascono dalle quotidiane frequentazioni con il territorio pestano. Il suo è un rapporto vivo, intenso, stringente, esclusivo. Presente e passato sono due facce della stessa visione archetipica. Attrazione e mistero trapassano ogni aspetto della realtà; si rivestono di un alone fantasmatico carico di lontani eventi. Nelle sue “geografie dell’immaginario” si respira una densità espressiva pregna di attese, atmosfere, sogni ricorrenti che diventano trasporti interiori dagli esiti inusitati. Il “prima” e il “dopo” del lungo incedere del Tempo, e del suo travisamento, nasce da una incantata malinconia. Sia la rappresentazione del territorio e dei frammenti archeologici (profili di montagne, mura, treni, stazione ferroviaria, templi, mitici eroi, capitelli riversi nei prati, metope, vasi, etc.), sia la visione del mondo vegetale e animale ancora esistente nel circondario (licheni, arbusti, alberi, bufali, cani, gatti, volpi, cinghiali, civette, pettirossi, etc.) sono le tracce di un fascinoso passato che, sebbene segnato dalla “miseria” e dall’“abbandono”, conserva in sé antiche memorie culturali, dense di aura e di mistero.
Ciò è soprattutto presente nei dipinti a olio. Le estese velature cromatiche dei blu notte, dei rossi sanguigni e delle fredde interazioni dei verdi incorniciano, in primo piano, larvate figure in ombra. Sembrano provenire da una abissale lontananza. Sono come tanti brandelli di un ritornante sogno, rimemorazioni di un passato sempre vivo e presente, magie dei luoghi quotidianamente vissuti, topoi impressi come tante spine nella carne che testimoniano una realtà antica e un senso di grandezza perduta che, nonostante tutto, ancora oggi riesce a sommuovere il sentimento. Sentimento che ritroviamo nelle pagine degli scrittori del Grand Tour, a cominciare da Goethe. Motivo emotivo che, in Sergio Vecchio, diventa il suo personale rapporto con la Storia. Nelle sue significative visioni ogni segno, ogni viluppo di colore declina un malioso evento di un lontano o recente passato. È come se Essere e Tempo si muovessero su un unico piano per affermare il loro esserci nel mondo. Un esserci dalle mille valenze e dalle mille sfaccettature, che consente al soggetto di riattraversare i brandelli memoriali e di caricarli di nuove fantasie non solo sul piano delle immagini, ma anche nei procedimenti materiali con cui le immagini si realizzano. Ciò diventa evidente soprattutto nelle opere su carta. Sui bianchi e spessi “cartoni”, appositamente realizzati dall’artista, le “figure” si accampano nello spazio della “narrazione” come egli volesse preservarle dal declino.
Intensità e pregnanza di colori vivi e luminosi testimoniano l’eterno ritorno alle fonti primigenie dell’essere, sia quando le immagini ripercorrono memorie familiari (cfr. La bicicletta di mio padre, Il treno del sud, etc.), sia quando intersecano i sentieri del mito e della cultura (cfr. Penelope aspetta, Nella selva delle ninfe). Diventano cioè tracce di un discorso “favolistico” che continuamente si rinnova e che la memoria quotidianamente rincorre. È come se l’artista volesse sottrarle alla nebbia del Tempo mediante le interne vibrazioni dei colori che dilatano all’infinito una dimensione di acuta malinconia.
Due mondi, questi di Angelo Noce e Sergio Vecchio, che s’intrecciano e s’intersecano per affermare il mistero dell’esistenza come identità dell’esserci nel tentativo di affermare la propria soggettività. E, pur consapevoli della propria limitatezza, non si stancano di ricercare, in un’epoca contrassegnata dalla svalutazione di ogni valore, i mille varchi che rendono possibile l’incontro tra l’Essere e il Tempo.
Testo del Prof. Gerardo Pedicini