L’introduzione in ambito sanitario di sistemi intelligenti, in grado di apprendere e di decidere, dischiude nuove entusiasmanti frontiere ma nel contempo muta radicalmente la relazione tra l’uomo e la tecnologia, che sta divenendo sempre più una sorta di specie aliena, anche se non ancora ostile.

Il futuro peraltro non è determinato, non è qualcosa che capita. Siamo noi a crearlo.

È possibile intervenire sul suo sviluppo, per cercare di reintrodurre nella cultura della medicina una dialettica esplicita, un confronto di pensieri, metodi, obiettivi, necessario per entrare nel merito dei processi, della gestione della progettualità, della difesa dei cittadini/pazienti.

L’Intelligenza artificiale (IA) sta cambiando il paradigma culturale della medicina, il cui ambito potrebbe da solo legittimarne la stessa esistenza. Le applicazioni algoritmiche e le relative capacità analitiche potrebbero diventare sempre più indispensabili, se ben integrate con l’attività dei professionisti della salute, per fornire risposte clinicamente importanti, soprattutto in contesti ad elevata complessità, e consentire ai medici di avere più tempo per prendere in carico i bisogni assistenziali del proprio paziente. La IA sarà utile essenzialmente in quanto complementare per il medico, che potrà delegare alle macchine i calcoli e le operazioni sui dati ma tenere per sé l’interpretazione dei fenomeni complessi e le conseguenti possibili soluzioni. I medici devono svolgere un ruolo di guida, supervisione e monitoraggio (essere “in the loop” anziché “out of the loop”), utilizzando la propria intelligenza (“il coraggio di servirci della nostra intelligenza”, per riprendere la famosa frase di Kant) e le capacità che li rendono superiori alle macchine, in particolare l’astrazione, l’intuizione, la flessibilità e l’empatia, le cosiddette soft skills, aspetti della professione che un algoritmo non saprà mai riprodurre. Gli umani devono esercitare un approccio conservativo e costruttivamente critico nei confronti delle macchine, evidenziando le loro enormi potenzialità, spesso enfatizzate acriticamente per motivi commerciali, ma anche i limiti (e le possibili minacce, come la distopia fantascientifica delle macchine al potere!).

Per esercitare questo controllo la supervisione umana deve essere di alta qualità e pertanto richiede percorsi formativi di alto livello, adeguatamente finanziati. Sicuramente è necessaria una sensibilizzazione di tutto il personale sanitario per acquisire competenze di informatica, sistemi digitali e biostatistica. In un mondo ideale i medici dovrebbero conoscere le basi della progettazione di un algoritmo, come ottenere i dataset per gli output e avere le competenze per comprendere i limiti degli algoritmi. I risultati migliori sono dunque attesi quando l’IA lavora di supporto al personale sanitario, “secondo set di occhi”, modalità di integrazione culturale tra umani e macchine smart, evitando di enfatizzare dispute, in fondo abbastanza irrilevanti, su quale sistema cognitivo, umano o artificiale, sia più “intelligente”. Citando A. Verghese, “i clinici dovrebbero ricercare un’alleanza in cui le macchine predicono (con una accuratezza significativamente maggiore) e gli esseri umani spiegano, decidono e agiscono”.

I sistemi di IA devono essere considerati uno strumento, come il microscopio, il fonendoscopio, l’elettrocardiografo, sviluppati nel tempo per sopperire alla limitata capacità percettiva dei medici.

Come affermato da E. Topol, in medicina la IA non dovrebbe sorpassare il livello 3 della scala utilizzata per classificare il livello di autonomia delle automobili, un livello di autonomia parziale, condizionata dalla supervisione umana.

Chi scrive ritiene fondamentale un diverso approccio culturale, in grado di comporre il rapporto tra le tecnologie e le esigenze di cura. Una modalità che si potrebbe definire “vettoriale”, anziché puntuale come spesso accade: un cambiamento di direzione, di prospettive, di obiettivi di salute e delle conseguenti variabili di riferimento: uguaglianza, bisogni di presa in carico, accessibilità a informazione e cure/servizi, progettualità di salute, continuità di cura. Complessivamente, una ridefinizione delle priorità, della qualità ed equità delle cure, un dare spazio alle richieste delle persone per fornire risposte basate su di un approccio globale, incentrato sulla identificazione e condivisione di valori, senso, obiettivi.

Nel mondo reale sono a tutti noti i limiti dell’attuale sistema sanitario, non solo nella nostra realtà: limiti e contemporaneamente spreco di risorse, possibili errori diagnostici, insufficienza del tempo dedicabile alla relazione medico-paziente, ineguaglianza di accesso. Con gli algoritmi della IA può essere possibile migliorare e potenziare i servizi sanitari. Ad esempio, se attualmente con una TAC possiamo fare 50 scansioni a settimana, applicando l’IA, in grado di identificare eventuali patologie e in generale situazioni di incertezza da sottoporre al giudizio del medico, potremmo arrivare a 500, aumentando il tempo a disposizione dei medici per altri compiti. Quello della perdita dei posti di lavoro non è dunque il vero tema, ma la formazione dei medici perché siano in grado di offrire un valore aggiunto.

Gli algoritmi possono rafforzare la governance clinica e ottimizzare le risorse, ad esempio ovviare alla imminente carenza di professionisti e ottenere teoricamente una riduzione dei costi della sanità, ma è fondamentale una collaborazione interdisciplinare per far sì che gli obiettivi dei programmatori coincidano con quelli dei clinici. Prima di implementare i sistemi di IA nella pratica clinica devono essere inoltre ridotti i possibili errori degli algoritmi, le inefficienze, limitati i costi.

Il valore aggiunto della IA e della digitalizzazione nella cura dei pazienti deve essere effettivamente dimostrato nella pratica clinica e quindi riconosciuto e remunerato dai Sistemi Sanitari, per consentire alle aziende di healthcare di investire. Altrimenti l’implementazione della tecnologica avrà rappresenterà uno spreco di risorse e il prezzo da pagare sarà la perdita di tempo da dedicare ai malati per alimentare i sistemi.

È lecito/doveroso trovare soluzioni alternative rispetto a sistemi sanitari che stanno collassando, ma la tecnologia, “l’orientamento algoritmico dei comportamenti” di E. Sadin, non può sostituire e nemmeno frapporsi nella relazione medico-paziente. Le politiche sanitarie dovrebbero supportare e sostenere la cultura medica basata sull’approccio fiduciario alla persona e tendenzialmente demedicalizzante, finanziarla adeguatamente e sgravarla dagli eccessivi carichi burocratici e amministrativi, evitando di favorire iniziative che possono determinare costi improduttivi in termini di salute, spesso derivanti da un uso improprio delle stesse tecnologie.

È ironico che proprio quando il tempo nella pratica clinica è sempre più limitato, è invece indispensabile una profonda riflessione sui possibili effetti della trasformazione in atto, un pensiero della digitalizzazione del mondo, una rinnovata consapevolezza umanistica, in termini di accettazione da parte dei curanti e di tutti gli operatori, di cambiamenti di ruolo professionale, di relazione con il paziente, di indispensabili necessità formative.

Parafrasando H. Fry, nell’era degli algoritmi, l’essere umano, guidato dalla propria intelligenza, non è mai stato così importante.

Bibliografia

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Verghese A et al., What this computer needs is a physician. Humanism and artificial intelligence, JAMA 2017; 319: 19-20.