Anche il medico entra a far parte della storia del paziente che continuerà il suo racconto a casa e magari ad altri medici, e poi in futuro ad altre persone. In questa storia futura anche noi, che oggi ascoltiamo questa persona, saremo personaggi e avremo una voce.1

Secondo Rita Charon «la pratica della medicina richiede una competenza narrativa», cioè l’abilità a conoscere, interpretare e trattare le storie e le situazioni delle altre persone. 2 Nell’ambito medico il primo contatto con il mondo della narrazione avviene proprio nel momento in cui lo studente inizia a raccogliere l’anamnesi. Questa, orientata alla malattia, considera il paziente oggetto della privilegiata attenzione della scienza medica. Lo studente si accorge presto che il paziente racconta la propria malattia in modo molto diverso dalla descrizione dei testi. Abbonda in particolari, apparentemente inutili sul piano scientifico, esprime fantasiose descrizioni di contorno, non segue un ordine causale-temporale, recrimina su istituzioni e singoli sanitari. Lo studente sa invece che gli viene richiesto di distinguere i “veri” sintomi e segni di malattia da quella sorta di rumore di fondo rappresentato dal paziente come persona. In particolare, deve individuare i “fattori di disturbo” per costruire, dal racconto disordinato offerto dal paziente, insieme delle unità narrative più semplici, una storia, ordinata e quindi spesso artificiale, insieme dei motivi presentati e raccolti in ordine causale-temporale per ottenere un senso nel linguaggio della nosografia ufficiale.

Fattori in grado di alterare l’ordine nel racconto di un paziente3

  • il paziente inizia la narrazione con ciò che ritiene più importante
  • il paziente tende a dire per prima cosa ciò che teme di dimenticare
  • il paziente è confuso, disorientato nelle sue coordinate temporali
  • il paziente rinvia la menzione di contenuti a lui penosi.

Lo studente impara allora a porre domande standardizzate e ad ascoltare poco, anticipando l’atteggiamento che molto probabilmente manterrà quando, ormai laureato, sarà inserito nella realtà professionale. Si prepara alla cosiddetta medicina del silenzio, quella che è quasi muta col paziente, al quale parla un esperanto che il malato e i familiari interpretano in difformità dei significati, qualche volta in assenza di significati.4 La “voce” attuale della medicina è infatti quella della Evidence-based medicine (EBM), costrutto diverso e spesso considerato conflittuale con quello della narrative-based medicine, “voce della vita reale”.

Negli ultimi anni, il valore delle storie cliniche è stato peraltro ampiamente rivalutato, in funzione complementare all’approccio metodologico della medicina basata sulle prove. Gli aspetti tecnici, statistici, relativi ai dati di letteratura possono infatti essere più facilmente compresi dal paziente e condivisi conoscendone pensieri, valori, preferenze, prerequisito indispensabile per la riuscita degli interventi assistenziali.

Le storie sono componenti qualitative e personalizzanti delle epidemiologie, in grado di rendere abitate le tabelle, di invitare a guardare al di là dei numeri, ristabilire un rapporto personale e responsabile tra le conoscenze basate sulla EBM/EBN (Evidence Based Nursery) e le persone che [non] ne possono essere destinatarie, per fare degli operatori non più solo degli spettatori-esecutori, ma coloro che si prendono cura. Raccontare significa infatti non accontentarsi di descrivere una realtà, ma farla propria, e comunicabile, scambiabile al di là delle cerchie professionali, capace di divenire parte di un linguaggio comune, che può appartenere a tutti.5

In medicina generale il valore della narrazione è noto da sempre. Il curante impara presto a utilizzare non la classica anamnesi ma le storie, più pertinenti ad un contesto popolato di attori e di eventi in stretta interazione, di soggettività ed oggettività, emozioni e percezioni, memorie di percorsi insieme biologici e biografici.

Raccontare storie è anche il modo con cui i medici di medicina generale si confrontano, si sostengono, si difendono, valorizzano indizi utili per il loro lavoro: in questo senso le storie sono uno dei sistemi per apprendere dall’esperienza, accumulare conoscenza “tacita”, da spendere nella gestione della variabilità e dell’incertezza tipica di questo lavoro, attraverso l’utilizzo di metafore e complessi processi cognitivi. L’approccio narrativo, usato anche come strumento di formazione e ricerca, fa parte del corpus culturale della medicina generale, è un suo valore aggiunto, da custodire e utilizzare per ridefinire le priorità di valutazione della appropriatezza e della qualità delle cure.

Note

1 Doglio M., Mi racconti tutto! Quando la narrazione aiuta il medico, Janus 2002; 1: 39-45.
2 Charon R., Narrative medicine: form, function, and ethics, Ann Intern Med 2001; 134: 83-87.
3 Cagli V., Malattie come racconti, Roma, Armando editore, 2004, p. 10.
4 Trovato G., La salute autoritaria. Dal mito dell’efficacia al rito dell’efficienza, Napoli: CUEN, 2000.
5 Tognoni G., Aneddoti, blob, storie e persone. La narrazione come priorità infermieristica? Assistenza infermieristica e ricerca, 2005; 24, 3: 110-112.