Un antico adagio recita: «Tutte le strade portano a Roma». Per arrivare alla consapevolezza, uno dei percorsi si chiama mindfulness. Definirla è complesso, di certo nessuna delle plausibili definizioni potrà rendere in pieno l’idea. Possiamo allora, provare a immaginare la descrizione che più si avvicina alla realtà.

Diremo, prima di tutto, quello che non è la mindfulness. Non è una religione, non è un metodo o una tecnica di rilassamento, il rimedio ad ogni male, un antidoto contro il dolore, non è lo svuotamento della mente, non è la ricerca della beatitudine, non è un metodo per allontanare esperienze sgradevoli.

E allora cos’è la mindfulness? Mi ripeto: è una strada.
Ecco cos’altro potrebbe essere:
un modo di pensare, la capacità di abbandonare vecchi schemi mentali, individuandoli innanzitutto. Conoscere le trappole mentali, ad esempio, in cui tutti spesso cadiamo, aiuta.
Quando percorriamo un bosco, e ci imbattiamo in una tagliola, la riconosciamo, eviteremo, dunque, di metterci il piede dentro. La nostra mente funziona esattamente così. Anche in psicologia, il percorso terapeutico prevede una fase di presa di coscienza/conoscenza di alcuni meccanismi. E quando si riconosce qualcosa, si è a metà strada.

I pilastri su cui si fonda la mindfulness sono sette. Tra di questi c’è il non-giudizio, la pazienza, la fiducia. Si tratta di esperienze che non sono state inventate ieri, sono meccanismi e risorse che ci appartengono e che magari dobbiamo riscoprire. Imparare di nuovo, rispolverare, conoscere e studiare, sperimentare su noi stessi.

Ecco, la mindfulness non è una pratica magica, non c’è bisogno di cadere in trance, non si fanno sedute spiritiche, essa ci insegna (o forse lo sappiamo già fare) ad attingere alle nostre risorse, semplicemente.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non esistono mete da raggiungere. Uno dei punti fondamentali è proprio quello di non alimentare l’ansia del risultato ad ogni costo. La pazienza, infatti, ci insegna che tutto arriva a suo tempo. Questo concetto ci ricorda Siddharta, personaggio impegnato nella ricerca spirituale, descritto da Hermann Hesse nell’omonimo libro. Il protagonista diceva: «So pensare, so digiunare, so aspettare». Aspettare si lega alla nozione di pazienza: Tutto prima o poi andrà al posto giusto. Potrebbe essere quasi un invito a calmare l’animo, per quell’agitazione provocata dalle ingiustizie e dai soprusi. Tutto tornerà al proprio posto. Attesa e fiducia, dunque. Il saper digiunare di Siddharta, invece, poco ha a che fare con il cibo, ovviamente. È un modo per affermare la propria libertà, il non essere schiavi di vizi, di cose, del consumismo, insomma. Non avere necessità, se non quelle legate allo spirito. Saper digiunare significa saper rinunciare. Più sono le cose di cui non sappiamo fare a meno, più siamo schiavi.

Molti libri sono orientati o ispirati dalla mindfulness, alcuni, forse hanno addirittura tracciato una strada prima. Il saggio Il potere di adesso scritto da Eckhart Tolle, ad esempio, parla del “qui e ora”, cioè della capacità di vivere il presente, senza viaggi temporali nel passato o nel futuro. Presenza della mente che osserva se stessa è una delle definizioni della mindfulness. Nel libro prima citato, viene descritto un altro importante concetto: l’accettazione. Si tratta della capacità di accogliere qualsiasi situazione o condizione ci capiti. Tale immagine non ha nulla a che vedere con la rassegnazione e non significa affatto arrendersi.

Secondo Il potere di adesso e la mindfulness tutto deve essere accolto, persino la sofferenza. Tutte le situazioni, anche le più dolorose, vanno accettate, abbracciate fino a farle diventare condizioni amiche, opportunità.

A volte un evento forte per molti rappresenta quasi uno spartiacque, tanto che viene raffigurata una vita prima e una dopo. Basti pensare a una perdita oppure, a una grave invalidità, occorsa in seguito a un incidente o a una malattia.
Alcune di queste persone, spesso, riescono a riprendere la propria vita in mano e a trasformarla, addirittura in un’esistenza migliore. Tutto ciò grazie alla consapevolezza. Sembrerà di avere qualcosa in più, e non in meno.

Una volta ho letto la storia di un uomo diventato cieco, in seguito ad una grave malattia. «Non darei mai un calcio a qualcosa che mi capita tra i piedi» diceva. «Potrebbe essere qualcosa di buono, non lo posso sapere, non vedo, perché giudicare a priori?». Ecco, spesso la vista può diventare il peggiore dei mali. Credere di vedere alimenta il pregiudizio, ecco perché diciamo no, senza sapere e senza conoscere, fidandoci solo degli occhi. Quell’uomo diceva anche: «La cosa più importante non è vedere, ma sentire».

Eppure, le vittime di tragedie immani, si sono trovate tutte davanti a un baratro, al buio più accecante. Si desidera sempre allontanare un dolore troppo forte, non si accetta, fa parte della natura umana.

La risposta (non la reazione) è nella consapevolezza, nell’accettare la nuova condizione, nel trasformarla a nostro favore. Chi combatte contro eventi dolorosi rischia di restarne ucciso, insofferente, arrabbiato per tutta la vita.

Cos’è che ci trattiene davanti al baratro? La mindfulness? La consapevolezza affiorata chissà da dove? L’amore per quello che abbiamo perso? Per quello che resta? Per la fede? L’amor proprio? Le domande e le risposte sono tante e sono tutte vere.

Ma torniamo a parlare di strade, dei mille cammini che si possono intraprendere per raggiungere un ipotetico intento, nel nostro caso la consapevolezza. La vita è come un fiume che scorre, bisogna solo lasciarsi trasportare, senza opporsi al flusso. Se facciamo resistenza, la forza non basterà e la corrente continuerà a fluire nonostante noi. È la vita stessa, la nostra vera maestra e la mindfulness solo una strada.