“In tempi come questi la fuga è l'unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare”. Basterebbe questo incipit per raffigurare la trasversalità e freschezza dell’opera firmata da Gabriele Salvatores nel 1991, vincitrice dell’Oscar come miglior film straniero.

La frase, originariamente appartenuta al medico, biologo e filosofo francese Henri Laborit, apre le danze di Mediterraneo, quinto lungometraggio del regista partenopeo e suo primo grande successo internazionale. Il coronamento ideale di un percorso, noto come “tetralogia della fuga”, avviato con Marrakech Express (1989) e Turné (1990), poi concluso con Puerto Escondido (1992).

Un tema ricorrente che diventa il vero protagonista del racconto, ben più delle singole vicende e del grande dramma della Seconda guerra mondiale consumato sullo sfondo. La storia viene infatti costruita attorno alle figure di alcuni soldati italiani spediti, nel 1941, sulle spiagge di una piccola isola greca, con il compito di conquistarla e di presidiarla. Le atmosfere evocative e sognanti dei titoli di testa, con un tema sonoro che si imprime subito nella memoria di ogni spettatore, pongono però le basi per una pellicola tutt’altro che bellica.

Capitanati dal Tenente Montini (Claudio Bigagli) e dal Sergente Maggiore Lorusso (Diego Abatantuono, attore feticcio di Salvatores), gli otto militari mettono piede sull’isola senza incontrare alcuna difficoltà. Nonostante alcune avvisaglie negative, come la visione di un cimitero e, all’approdo, una dicitura poco rassicurante su di un muro (“La Grecia è la tomba degli italiani”), la compagnia scopre ben presto di essere giunta in un angolo di mondo, forse l’unico, privo di milizie.

L’isola è colma di una vitalità silenziosa e rassicurante: bambini, donne e anziani, oltre a qualche ragazzo e ad un prete ortodosso, accolgono dopo poco tempo gli sbarcati all’interno della loro ristretta comunità, rendendo i motivi all’origine dell’intrusione sempre più sbiaditi e lontani. I soldati, inoltre, già nelle prime battute perdono il contatto radio con il comando centrale, restando così sempre più isolati dal mondo esterno e dagli sviluppi del conflitto mondiale.

Un lungo oblio che permetterà ad ognuno degli interessati di poter valutare le coordinate della propria vita. Una svolta che porta ad intense riflessioni esistenziali all’interno di una narrazione crepuscolare, delicata ed in grado di rendersi portatrice di messaggi universali, senza tempo. Una sospensione dal tempo della Storia, una parentesi che viene concessa agli otto uomini capitati su quel piccolo pezzo di terra per poter raccogliere la propria essenza personale, fino a quel momento dispersa dalle schegge impazzite di uno scontro senza precedenti.

«Avevamo tutti, più o meno, quell’età in cui non hai ancora deciso se mettere su famiglia o perderti per il mondo», dice inizialmente il Tenente Montini attraverso un voice over narrante. I soldati paiono, si potrebbe affermare, all’interno di un coming-of-age drama che, per definizione, dovrebbe però legarsi a un’età diversa dei protagonisti, ben più giovani e non più che adolescenti.

Ma il regime dittatoriale prima, e la guerra poi, hanno privato questi adulti-ragazzi di alcuni passaggi fondamentali della crescita e della maturazione. Come dimostrano alcune caratterizzazioni: il legame quasi simbiotico tra Strazzabosco (Gigio Alberti) e l’asina Silvana; o le incapacità natatorie dei fratelli veneti Libero e Felice Munaron (Memo Dini e Vasco Mirandola); o, ancora, la verginità dell’attendente Farina (Giuseppe Cederna). Senza dimenticare Noventa (Claudio Bisio), consumato dal disperato e quasi infantile desiderio di tornare in Italia.

Modi diversi per mostrare lacune affettive nello sviluppo e, più in generale, una forte discrepanza tra i ritmi imposti dalla società e le vite private di questo manipolo di soldati. Come se il mondo avesse corso ad una velocità impossibile da sostenere per alcuni, rimasti incolpevolmente nelle retrovie di quella grande corsa verso i posti di rilievo del nuovo ordine mondiale che andava formandosi.

Per alcuni, sussiste il desiderio di continuare a lottare per risalire le fila: è il caso di Lorusso, reduce di varie – e, a volte, presunte – battaglie ed azioni eroiche. Fieramente votato al trionfo italiano in guerra, è sicuramente il volto che trova maggior agio nel contingente bellico, promuovendo spesso azioni e decisioni all’attenzione del suo superiore, il Tenente Montini (il quale, in verità, pare molto più interessato alla pittura).

Gli altri, in maniere diverse, cercano un rifugio nella fuga; una fuga dal mondo, dalle sue prerogative più attuali e dalle lotte per la supremazia. Il tempo inizia a scorrere e con esso gli otto uomini cominciano a riprendersi ciò che la guerra e la dittatura aveva loro strappato: spensieratezza, poesia, arte, fratellanza tra popoli e tanto altro.

Un ritratto che acquista una certa stabilità nel tempo, permanendo fino al termine delle ostilità mondiali. Sfuggendo abilmente alla trappola del naïf, tale parabola si conclude infatti con l’arrivo delle truppe inglesi e con il ritorno dei greci impegnati al fronte: un momento di estrema catarsi che giunge alla conclusione di un percorso di crescita personale affrontato dai soldati italiani, lontano dal dolore e dalla morte che imperversavano ovunque.

Senza entrare nei meriti del meraviglioso finale riservato dalla pellicola, ciò che viene consegnato al pubblico è nuovamente una riflessione sulla fuga. C’è chi abbandona l’isola, perché ha già vissuto la propria evasione e vuole tornare allo status quo ante; c’è chi rimane, perché vuole rendere la fuga una condizione permanente. C’è chi, infine, viene ammaliato dalle sirene del cambiamento e poi viene deluso, al punto da tradire i propri ideali per tornare sui propri passi.

Dedicato a tutti quelli che stanno scappando è la didascalia che, riallacciandosi all’apertura, chiude in maniera perfettamente circolare la narrazione, arrivando ad ampliare il significato complessivo. La dedica, rivolta ai soggetti dell’azione in corso di svolgimento, conferisce una nota di merito e di coraggio, perché puntare ad un qualcosa di diverso vuol dire anche abbandonare le proprie certezze e la zona di comfort.

Il bisogno di scappare può certamente avere un’origine dolorosa, di separazione da qualcosa di negativo e nocivo: come un conflitto armato, o come una situazione di forte disagio diffusa in un Paese. Ma può anche rivolgersi ad una necessità dell’individuo, che abbandona il sentiero più battuto alla ricerca del proprio posto nel mondo, capace perciò di rispecchiarlo.

La fuga è quindi un viatico per “mantenersi vivi e continuare a sognare” perché porta ad un’evasione dal destino originario, tracciando una deviazione rispetto alla via principale. Una via che può possedere un fondo stradale dissestato e poco conosciuto, capace di creare reali dubbi ed incertezze; allo stesso tempo, però, legata ad una visione più personale ed intima dell’individuo. Fino, si potrebbe dire, alla piena compenetrazione di soggetto e azione, con l’atto che diviene una parte fondamentale al pari di un organo vitale.

È per questo che Mediterraneo, carico anche di una vaga malinconia tardo estiva, risulta così toccante e personale, nonostante la storia tratti personaggi in apparenza distanti da noi e non solo nel tempo della Storia. Affezionarsi alle loro peripezie è inevitabile, ma il cammino che viene imboccato diventa unico per ogni vissuto: resta ad ognuno di noi scoprire dove conduce.