Oggi è martedì 20 marzo, finita la colazione da Hussein, Aldo, Francisco ed io saliamo sul pulmino che da Zebit ci riporta ad Hays. Da qui, facciamo in piedi i trenta chilometri di deserto per Khoka, saltando dietro al pickup della Toyata guidato da un driver che va fortissimo tra buche e dune. Il paese di Khoka, come pure Hays, è molto gradevole, così punteggiato dalle tipiche costruzioni yemenite. Nella spiaggia, qua e là macchiata da chiazze nere di pece liquida, sono di ritorno i pescatori con le barche piene di squali di tutte le dimensioni.
Tutt’attorno, vediamo abbondanti gusci vuoti di tartarughe di mare. In Europa costerebbero una fortuna, ma i pescatori dicono che sono troppo pesanti e non sono in grado di organizzare affari del genere. Gli uomini a Khoka usano tagliarsi i capelli alle tempie lasciando le basette a punta. Le donne, invece, fanno il bagno separate in gruppo e tutte vestite, com’è d’uso tra i musulmani. Facciamo anche noi il bagno nel Mar Rosso mosso da onde giacchè la spiaggia è larga e lunga e noi possiamo immergerci in acqua senza mettere in imbarazzo nessuno. Ci dicono che da Mokha, poco più a sud, c’è una nave che fa servizio da e per Gibuti. Conversando con alcuni giovani, si capisce bene che tutti hanno il mito dell’Europa e di Gibuti perché ci sono donne e whisky che inducono alla bella vita.

Alle 16 facciamo ritorno ad Hays con lo stesso pickup e sempre saltellando, tenendoci ben stretti per non volare via. Questa volta però ci lamentiamo del prezzo perché sappiamo che il passaggio costa 10 rial e a noi il driver ne chiede 15. Ci fa lo sconto a 13, spiegando che 10 è il prezzo di quando il mezzo è pieno, mentre ora siamo solo in cinque. Da Hays, alle 17,30 saliamo su di un camion diretto ad Hodeida. Francisco si ferma a Zebit perché ha piacere di iniziare la primavera nel bel Fundok di Hussein, una storia personale, dice. Secondo noi si è innamorato della bella figlia della padrona.

Superati i posti di blocco all’ingresso di Hodeida, alle 19,30 siamo nel centro di questa scialba ma importantissima città marittima. È il principale porto del Mar Rosso, di vitale importanza per i rifornimenti ed il commercio in generale di tutto lo Yemen del Nord. Porto molto conteso in tutte le innumerevoli guerre del passato remoto e recente e grande mercato di caffè, perle e schiavi etiopi fino alla fine dell’800. Oggi, è nota soprattutto per il mercato del pesce, dove affluiscono da tutta la regione i pescatori di squali. La camera all’hotel Hodeida costa 35 rial, bello ma caro. Hotel Asia uguale. Dei lavoratori finlandesi ci accompagnano in auto ad un dormitorio popolare pieno di brande da 5 rial l’una in una grande casa che a prima vista sembra una moschea ed è invece un cinema, il Cinema National.

Ovvero, è lo stesso stabile: con una scaletta laterale si sale al salone del Dormitorio Montasà Halì, al piano sopra la sala del cinema, pieno di facce buie e tetre, da sembrare losche, ma sono solo dei bravi “diseredati” in cerca di lavoro. Alcuni somali parlano italiano. Sono tutti sotto il controllo del supervisore Naser, che chiamano “zio”, in arabo "abb”. Molto simpatico, ci porta delle bibite gratis a letto e aiuta tutti, funge da guardiano del dormitorio e se uno disturba o si comporta male lo sbatte fuori.

Nessuno dei presenti immaginava di trovarsi con due europei in un “merdaio” simile e ne sono contenti. Quando sentono che andremo a Gibuti e poi in Somalia, tutti hanno informazioni da darci. Jamal, un somalo di Gibuti, dice che là è tutto carissimo: “Per un dollaro ti danno 40 franchi e l’hotel più economico, il Falach Rouge, costa 2000 franchi che sono 50 dollari. Una birra 350 e una prostituta 5000”. Dall’aeroporto di Gibuti alla città non ci sono autobus, ma solo taxi per 500 fr. Tutti concordano sul diffidare della gente del Somaliland, l’ex Somalia britannica, e nel decantare Mogadiscio come un paradiso in terra, con locali da ballo, night club, bella gente e tanti italiani che ancora la abitano. Annoto una marea di indirizzi che potrebbero esserci utili, come il mercato nero per il cambio di dollari, il trasporto dall’aeroporto, il costo dei taxi, il Pananadore hotel da tre dollari a notte, il circolo Casa d’Italia, gli aerei e i camion da Gibuti ad Hargeisa e Mogadiscio e la nutrita serie di locali notturni e da ballo che animano le notti nella capitale somala, come Giuba, Lido, Gesira, Terrazza, Aruba, Sambuc e tante altre informazioni a ruota libera. Confermano che la malaria è presente qui ad Hodeida come pure a Gibuti, poco a Mogadiscio e assente ad Hargheisa, nell’ex Somalia Britannica, per l’altitudine.

Ai somali piacciono gli italiani e gli arabi, mentre non vogliono saperne di inglesi, americani, francesi e russi. Jamal aggiunge che i somali sono “figli d’Italia”, perché sono furbi e provano sempre a truffarti, alcuni sono ladri: “Proprio come gli italiani”. Vede che annoto e seguo con interesse, quindi si prodiga nel darci più materiale possibile su cui riflettere: “In Somalia, non dite che siete turisti, meglio dire che siete tecnici dell’Elettraconson o anche dell’impresa stradale Muria”. Se, a nostro avviso, alcune informazioni potrebbero essere valide, altre, si fatica a condividerle, ma ogni pensiero o fantasia è comunque d’aiuto nel cercare di capire come intendono la vita queste persone: “O hai soldi o sei furbo. Quando ti siedi con uno che ha una ragazza, tu che sei il terzo arrivato paghi il conto e ti prendi la ragazza. Gli dici che la vuoi sposare ed è fatta! Le somale vanno matte per gli italiani perché hanno soldi e sono generosi”.

Per qualche motivo, ci sfugge il senso di ciò che dice Jamal. Inizia a parlare in termini lusinghieri dello Yemen del Sud, di un grande cartello all’ingresso di Aden che recita “Aden Half London”. Le versioni di altre persone sono l’esatto opposto, ma Jamal sostiene che Aden è una bella città dove adesso si vive bene: “Prima ad Aden si faceva la fila per avere il cibo, la situazione era disperata, ma ora con il nuovo governo ed i russi tutto è tornato normale, hanno anche riaperto i night club, le balere, i bordelli”. I ragazzi qui sentono molto la mancanza di svaghi e divertimenti, a loro dire vittime e prigionieri di una realtà che li inchioda alla miseria più nera: “Voi siete fortunati perché in Europa avete libertà, donne e whiskey”. Questo incessante ritornello di identificare la libertà con alcool e bordelli mette tristezza. Emerge sempre l’ossessione delle donne determinata da una cultura religiosa, privata e sociale, che discrimina il vissuto delle donne da quello degli uomini.

Mercoledì 21 marzo, notte inquieta: ho sognato che “ero dovuto tornare a Modena e mi sembrava di morire. Al confronto a qui, Modena mi pareva orribile. Probabilmente per un inizio di mal d’Africa ed il timore di tornare ad una vita troppo noiosa”. Incredibile, i ragazzi ci invidiano perché siamo europei ed io sogno l’esatto contrario. Il motivo è semplice, io sono comunque un turista ed effettivamente sono fortunato perché posso scegliere di andarmene quando voglio, mentre loro no.

Salutato Naser, Jamal e la combriccola di amici somali, giunti in strada alziamo il dito e subito si ferma un taxista che ci porta fuori città senza pagare. Qui ci carica un signore in Jeep che ci accompagna oltre il posto di blocco, sulla strada per Manakha, la nostra destinazione distante 120km. Altrettanto velocemente ci troviamo su di una Volvo guidata da un ingegnere di nome Kamel. Questo facile susseguirsi di gente che si ferma per aiutarci è straordinario, credo sia in gran parte dovuto al fatto che siamo stranieri occidentali. Tuttavia, l’ingegnere guida in modo per niente tranquillizzante, anzi sembra un neopatentato che ancora non sa guidare. Prima di partire per questo giro del paese, un signore di fede Cristiana ci ha detto: “Ogni volta che devo fare quel tratto di strada, da Sana’a ad Hodeida, mi faccio sempre il segno della croce”.

Questa è una strada d’alta montagna col burrone sul lato destro e Kamel è esagitato: prende le curve a tutta velocità e contromano. Per due volte frena in extremis. Un viaggio da panico che non ci permette di goderci il panorama.

Alle 12 siamo finalmente a destinazione, dove ci aggancia subito Mohamed, un giovane ben vestito ed estroverso di Jedda, in Arabia Saudita, venuto a Manakha per la prima volta a vedere i luoghi dove è nato suo padre e per una visita ai parenti. Ci invita a visitare Agiara, il paese di “grattacieli” in argilla che si vede sulla cima della montagna, dove abitano i suoi zii ed altri suoi familiari. Mohamed racconta di essere sposato con una inglese che si stona moltissimo e si buca di fiale di Valium ogni giorno. Confida che è in perenne paranoia al pensiero che mentre lui è nello Yemen sua moglie in Inghilterra possa tradirlo con un altro uomo: “Se, quando torno, scopro che mi ha fatto le corna, non uccido né lui e né lei per non sporcarmi le mani di sangue, ma la rovino diversamente”.

Prendiamo un taxi per salire a Manakha ed una seconda auto per continuare a salire fino ad Agiara, dieci minuti di auto a tratta. Manakha è un paese eccezionale, di stampo medievale, arroccato alla sommità di un fronte roccioso dall’aspetto inespugnabile. Il borgo di Agiara è ancora più in alto e singolare, con una veduta mozzafiato da un’altezza di 2900-3000 metri. La casa degli zii di Mohamed ha 220 anni ed è quella che dalla strada sembra una torre, isolata dal paese, costruita su di una rupe tra due valli. Ci dicono che in 220 anni questa è la prima volta che dei bianchi entrano in questa casa, proibita anche in virtù della presenza femminile. Oggi, grazie a Mohamed, ci mostrano con orgoglio tutte le stanze consentendoci anche di fotografare. Ogni angolo, porta e infisso evoca l’interno di un castello medioevale, tutto pulitissimo ed in perfetto ordine da sembrare, più che una abitazione, un museo.

Le sale, nei diversi piani, sono piene di tappeti, oggetti in ottone, narghilè, vassoi e coltelli, fucili, mitra AK47 e cartuccere appesi alle pareti. La luce è soffusa e calda per i vetri colorati delle finestre. Colpisce la dimensione ridotta di porte e finestre: le porte esterne sono alte 130-150cm e quelle interne 100-110cm; le finestre da 30 a 50cm.

Ci offrono un piatto unico con formaggi, olive, pane e tè al latte a volontà. I parenti di Mohamed coltivano il kat sui monti con i campi a terrazza e ce ne offrono svariati rami, precisando: “Nello Yemen la gente spende tutto quello che ha per il kat”. Spiegano che l’effetto è maggiore se dopo averlo succhiato si mangia qualcosa bevendo acqua. Hanno le cantine piene di scorte, di loro produzione, da tenere per i periodi di siccità. Sembra gente povera ma in realtà, dice Mohamed: “In questa casa, i miei zii tengono nascosti ori e valori per milioni di dollari”.

Mohamed ci porta poi a visitare la casa di un altro suo zio, una torre costruita sulla cima del monte, da dove si domina il centro del borgo di Agiara dall’alto. Sotto di noi, vediamo il grande terrazzo sul tetto di un'altra casa-torre eretta poco più in basso. Su quel terrazzo, un uomo si affaccia su tutti i lati a guardare di continuo verso il basso. Si affaccia da un lato, guarda giù, passa subito a guardare un altro lato e ripete i gesti in perpetuo da apparirci subito un caso patologico. Lo zio di Mohamed spiega che quel signore si affaccia sedici ore al giorno per vedere se torna sua figlia che, quattro anni prima, si è esposta troppo dal parapetto ed è caduta nel vuoto. Visione tenera ed angosciante, difficile anche per noi da dimenticare.

Man mano che passano le ore appare sempre più chiaro a tutti quanti che Mohamed è uno sbruffone che recita la parte dell’emancipato con i parenti contadini. Vuol dimostrare che in Arabia hanno una mentalità più aperta, si vanta di parlare l’inglese e di conoscere degli stranieri, cioè noi. Associare l’Arabia alla mentalità aperta è tutto da ridere, a noi risulta che anche le turiste straniere non possano stare in costume neppure nelle piscine degli hotel e non possano neppure guidare l’auto. Al ritorno sulla statale, Mohamed non ha poi pagato il taxi, come detto, ed ha sparlato di Francisco che non era proprio il caso.

Francisco rimane a Manakha, mentre Aldo ed io torniamo in strada a chiedere passaggi. Alle 16,30 ci caricano due taxisti che parlano italiano, tranquilli e simpatici. I 120km per Sana’a, come ci hanno avvisato un po' tutti, sono effettivamente pericolosi, specie oggi che piove a dirotto, con frane e macigni sulla strada e vediamo pure alcune auto che sono finite fuori strada. Arrivati a Sana’a i due taxisti vanno a cercare dell’hashish da un loro amico ma senza trovarlo. Parlando di leggi e trasgressioni, dicono che in Arabia se bevi del whiskey ti becchi 25 anni di prigione, qui nello Yemen solo una multa. Molta galera invece se ne fai commercio.

A ora di cena ci fermano due ragazzi somali che, pure loro, parlano italiano, per chiederci se conosciamo altri italiani che abbiano bisogno di mano d’opera. Omar ed Idris spiegano, nei dettagli, le ovvie difficoltà che incontrano senza un lavoro: “Gli yemeniti ci chiamano bestie”. Sono bravi e volenterosi, ci lasciamo coinvolgere. Andiamo insieme a cercare Giorgio Calabrese che troviamo seduto nel ristorante dell’hotel al-Ihkwa, dove alloggia. È al tavolo con un ingegnere che Giorgio chiama dott. Parmiggiani. È fatta! Promette di assumere i due somali e invita Aldo e me a pranzo domani alle 13. Sappiamo bene che ci ha invitati non per discutere ma per ascoltare perché Giorgio è uno che ama i soliloqui. Quando c’è un respiro, una pausa, e riusciamo a dire qualcosa non serve perché comunque non ascolta. Usa una forzata terminologia raffinata da nobile, in verità è un gran puttaniere.

I due somali sono felicissimi, al settimo cielo, vogliono offrirci da mangiare, da bere, pacchetti di sigarette. Visto il successo ottenuto ci portano al loro dormitorio all’hotel Taiz, un covo di disoccupati somali affamati di lavoro. Tutti ci fanno festa, come degli eroi. Il ritornello che amano gli italiani e odiano inglesi e francesi in questo caso è per opportunismo. Indirizzi utili a Mogadiscio: Arte hotel e Dals hotel in zona centrale chiamata Singani. Alla Croce del Sud da Mario per il mercato nero di valuta e alla Terrazza, con gestori italiani, si balla tutte le sere. Abbiamo scritto cinque nomi da proporre domani come operai a Calabrese e a Parmiggiani.

Giovedì 22 marzo, ultimo giorno nello Yemen. Abbiamo dormito a casa di Ahmed, notte psichedelica per le lucine colorate a intermittenza di un curioso alberello di Natale. Alle 13 siamo puntuali al ristorante dell’hotel al-Ihkwa con Giorgio e Parmiggiani, i quali si esaltano nel ricordare le belle donne conosciute in Mozambico, Swaziland, Iraq, ecc. Chiarendo ironicamente che non sono omosessuali. D'altronde nello Yemen, specificano, a differenza di altre popolazioni arabe, la pederastia è vissuta come un’onta. Per il lavoro ai somali è andata a buca, sono al completo, facile da immaginare ma abbiamo voluto provare ugualmente. Ai saluti, Parmiggiani, che possiede un hotel a San Benedetto del Tronto, si raccomanda di andarlo a trovare: “Telefonatemi anche per eventuali investimenti all’estero, mi sono rotto di stare in Italia!”.

Buona notizia alla Citibank, ci hanno finalmente rimborsato 1050 dollari dei 2800 in traveller’s cheque persi due mesi prima alle Piramidi di Giza al Cairo. Tornati in strada, si è sparsa la voce che abbiamo trovato lavoro a due somali e ora tutti ci fermano per chiedere aiuto. È proprio giunto il momento di cambiare aria. Salutiamo Francisco, l’amico di Barcellona, nazionalista spagnolo e figlio della natura che ora è diretto nel nord dello Yemen, nella zona del Shahara Bridge.

Prima di coricarmi nella stanza che ci ha assegnato l’amico Ahmed, sento un lieve bruciore alla mano destra: da una lieve escoriazione della pelle del pollice, causata dall’avere tenuto stretto un tubo del pickup durante i 60km del tragitto tra Hays e Khoka, mi esce del pus e sta facendo infezione. Venerdì 23 marzo, l’infezione al pollice progredisce e avanza il cordone rosso dell’infezione su per il braccio. Vado all’ospedale vicino a Bab al-Yemen ma oggi è venerdì ed il personale è ridotto al minimo. A Sana’a c’è un ospedale russo, uno saudita ed un altro yemenita, tutti con infermieri europei. Faccio l’autostop per l’ospedale Mustafa al-Gimhueri, vicino a Bab Algà, l'altra porta d’ingresso in città.

L’infermeria e la sala operatoria sono molto più sozzi di uno dei più lerci macelli italiani. Il dottore è cinese, mi medica il dito e mi cura con medicine cinesi: antitetanica da 1cc, più due pillole ogni 6 ore. Bene, posso partire tranquillo.

Dopo il pranzo, facciamo un ultimo autostop in terra yemenita, fino all’aeroporto. A Sana’a, per noi, è più facile e celere chiedere un passaggio che cercare un taxi. Il volo per Gibuti della AirYemen parte alle 16.20. Abbiamo trascorso nello Yemen nove intensi giorni. Se riuscirò a tornare, la prossima volta mi piacerà visitare anche Aden e l'isola di Socotra, un vero e proprio paradiso terrestre per la sua natura incontaminata e il mare cristallino.