Nel mio precedente articolo su questa rivista ho esposto i fatti relativi a quello che ho chiamato "il caso Monaca" . In questo scritto vorrei portare la vostra attenzione non sui fatti in cui è coinvolto il maestro Giampiero Monaca, ma piuttosto su ciò che li ha alimentati. Probabilmente Monaca avrebbe potuto gestire quanto gli stava accadendo con più diplomazia, aggirando gli ostacoli come fa l’acqua nel suo scorrere, piegandosi come il bambù sotto la forza del vento. Probabilmente la sua rigida onestà intellettuale non l’ha agevolato nel suo intento che, in definitiva, è crescere delle generazioni di persone pensanti, critiche e coscienti. Ma ciò che intendo analizzare oggi non è l’atteggiamento di Monaca, ma quello dei suoi detrattori. Cosa spinge una persona a ostacolare il percorso di un’altra? Perché si sente la necessità di andare contro quello che dovrebbe essere un nostro collega, una persona che sta facendo il nostro stesso percorso, mosso, teoricamente, dalle nostre stesse motivazioni? Essere insegnante, a mio avviso, è una scelta di vita non un mestiere come un altro; non può e non deve essere inteso alla stessa stregua del fare la commessa in un negozio d’abbigliamento o di qualunque altro lavoro. Un insegnate non deve continuamente guardare l’orologio per vedere quanto gli manca per andarsene dalla scuola e tornare alla “libertà”. Mi permetto di sottoporvi un estratto dal mio libro “Un libro di scuola” - pubblicato da Bibliotheka Edizioni di Roma – dove il Professor Umberto Galimberti così descriveva il ruolo dell’insegnante:

Insegnare vuol dire comunicare, essere carismatici, trascinare [...] Quindi ci vogliono dei professori capaci di comunicare, che credono nel loro mestiere, capaci di affascinare. Se non hai quelle doti non devi fare il professore. [...] I maestri nascono tali per natura e purtroppo l’arte di essere carismatico non è una tecnica che puoi insegnare. Se una persona non ha la natura del pittore e si mette a fare dei quadri, quei quadri non saranno arte perché non è un pittore. Se non sei bravo a suonare, fino a raggiungere livelli magistrali, non sei un musico. E perché dovresti essere considerato un insegnante se non sai insegnare? Perché i Ministeri hanno sempre visto la scuola come un luogo di occupazione di professori, non come un luogo di formazione di giovani.” Quindi, come formare i docenti? Continua Galimberti: “La formazione serve se tu hai già una natura idonea. Se non ce l’hai è inutile che ci provi: tu stesso, professore, vai incontro a un’infelicità per tutta la vita. E se non te la senti di far l’insegnante, andare a scuola tutti i giorni dalle otto della mattina fino a mezzogiorno o giù di lì, è un inferno, se non hai una passione.

Questo modo d’intendere la vocazione per l’insegnamento è condiviso da molti altri pedagogisti come il Professor Benedetto Vertecchi e personalità del mondo dell’insegnamento come Fritjof Capra e da tantissimi insegnanti. Ma d'altronde non bisogna essere esperti d’educazione per capire che l’insegnante ha un compito importantissimo ed estremamente delicato nell’ottica della costruzione di una società futura. Gli studenti che finiscono un percorso educativo saranno gli adulti che avranno le sorti del mondo nelle proprie mani. Non mi sembra poco.

Una volta chiarita l’importanza e la delicatezza del ruolo dell’insegnate, consapevoli di quanto indica la nostra Costituzione riguardo la libertà d’insegnamento tramite l’art.33, voglio provare a capire perché un insegnante dovrebbe intralciare il lavoro di un suo collega.

Ora, è vero che con l’introduzione della cosiddetta “buona scuola” gli istituti sono entrati in competizione tra di loro, per cui posso capire, ma non condividere, che si facciano la guerra tra di loro; ma all’interno dello stesso istituto non avrebbe senso la competizione tra insegnanti, soprattutto se non razionalmente giustificata. La competizione tra istituti è per accaparrarsi il maggior numero di studenti, in modo da disporre di somme sufficienti per approntare sempre più progetti che invoglino i genitori a iscrivere i propri figli in una scuola piuttosto che in un’altra. È il classico cane che si morde la coda: se non dispongo di fondi sufficienti non posso programmare progetti interessanti che portino altri studenti, in modo da avere risorse sufficienti per proporre altri progetti e così via all’infinito.

Ma all’interno dello stesso istituto questo discorso non vale, anzi, se uno dei progetti (nel caso del maestro Monaca il progetto si chiama “Bimbisvegli”) fa triplicare il numero d’iscritti ne beneficia tutto l’istituto. Quindi, razionalmente, ostacolare un progetto vincente non ha senso.

E infatti non è tramite la ragione che potremmo capire un tale comportamento, ma attraverso i sentimenti. Questi non li abbiamo per natura, ma s’imparano; noi nasciamo con l’istinto, le pulsioni, ma non con i sentimenti o, per dirla ancora con Galimberti “l’educazione è la cura della genesi del sentimento di una persona” e i sentimenti non sono tutti iscrivibili in quello che la morale corrente identifica come “bene”. Alcuni sentimenti non portano a nulla di buono. Allora che tipo di sentimento muove un individuo verso un “suicidio razionale”, perché di questo si tratta. Se per contrastare un mio collega arreco un danno all’intero istituto dove io stesso lavoro, sto praticando un suicidio intenzionale e apparentemente immotivato. Credo che la causa vada ricercata in diversi tipi di sentimento.

Uno potrebbe essere l’invidia: tu sei più bravo di me, quando c’è il tuo “open day” da te vengono 200 famiglie e da me 5 e questo non mi piace per niente; mi fa sentire sminuito, non al tuo livello e non mi piace. Poi ci potrebbe essere l’antipatia istintiva che una persona può provocare in un'altra. Credo sia capitato a tutti di provare un simile sentimento: incontriamo una persona mai vista che a pelle non ci piace. Quindi, non seguendo la razionalità, qualunque stimolo arrivi da questa persona siamo portati a rifiutarlo. Non è una reazione molto intelligente, ma qui stiamo analizzando motivazioni irrazionali.

Ma ci potrebbe essere anche dell’altro. Per esempio, avere qualcuno che va a una velocità superiore alla nostra ci potrebbe portare a cercare di ostacolarlo, invece che ad aumentare la nostra andatura, soprattutto se siamo consapevoli dei nostri limiti e sappiamo che non riusciremo mai a correre veloci come lei o lui.

Nello specifico del mondo scolastico, dove gli insegnanti percepiscono lo stipendio più basso del resto dei loro colleghi europei, dove il loro ruolo è stato progressivamente sminuito fino a essere ridotto a quello di burocrati che passano la maggior parte del loro tempo a compilare documenti e a studiare progetti che attirino il maggior numero di famiglie presso il loro istituto, potrebbe quasi essere comprensibile che, la maggior parte di loro, pensi a impegnarsi lo stretto necessario per essere a posto con la propria coscienza e nulla più. Se a questo aggiungiamo che molti scelgono l’insegnamento come ripiego a una professione autonoma che, con i tempi che corrono, potrebbe rivelarsi molto impegnativa e poco interessante dal punto di vista economico, con aziende che chiudono da un giorno all’altro e di contro possono trovare impiego in un’istituzione statale con lo stipendio sicuro, beh direi che persone simili non abbiano affatto alcun interesse a impegnarsi più del minimo sindacale.

Va da sé che questo modo d’intendere l’insegnamento è quanto mai distante dall’avere una vocazione. Questa resistenza verso chi esplora nuove strade, verso chi s’impegna più del consueto non è prerogativa del mondo scolastico, ma pervade tutta la sfera delle umane competenze.

Questo perché non abbiamo ancora una chiara visione del nostro ruolo nella società e nel mondo stesso. Perché nessuno ci ha aperto gli occhi; perché la politica non è in grado di farlo, in quanto anche lei non ha un programma per il futuro, essendo fatta da persone inconsapevoli del loro ruolo nel mondo; perché la scuola non ce l’ha insegnato, nessun professore si è rivelato essere un maestro, perché la maggior parte degli insegnanti vede il suo come un lavoro qualunque. Anche questo è un cane che si morde la coda.

Quindi, che fare? Fermarsi, guardarsi dentro, dove non c’è posto per le menzogne. Osserviamoci, riconosciamoci ed evolviamo, andiamo oltre le nostre bassezze. Non limitiamoci a quelle che già conosciamo, ma scaviamo sempre più nel profondo, anche se fa male, ma è un male, un dolore e una sofferenza che ci aiuteranno a liberarci della nostra falsa personalità per cominciare un processo di trasformazione. Dobbiamo essere onesti con noi stessi, altrimenti non potremmo mai esserlo verso gli altri.

È ora di dire basta alle meschinità, alla mediocrità; noi siamo qui per superare i nostri limiti, non solo quelli tecnologici, ma soprattutto quelli che abbiamo nella nostra testa; ce lo insegna il mito di Ulisse, ce lo ricorda Dante, ce lo dicono in tanti, attraverso la loro arte, il loro pensiero, i loro scritti e la loro stessa vita; persone che osanniamo, riconosciamo come dei geni o dei santi, ma che non capiamo veramente.

Ciò che ci differenzia dagli altri esseri viventi potrebbe essere la capacità di riflettere. Riflettere su noi stessi sul senso di tutto ciò, sul nostro ruolo nel mondo. Altrimenti perché ci dovremmo dare tanta pena per continuare ad esistere? Solo per portare avanti una specie che sta distruggendo tutto quello che tocca, compreso lo stesso pianeta su cui vive?

Se è così allora risulterebbe tremendamente vero e drammatico quello che ipotizzava Asimov nel suo racconto pubblicato nel 1958, “Razza di deficienti!”.