Tempo fa quando lessi l’articolo, dal titolo molto emblematico, Il castello di sabbia dell’economia mondiale, apparso su un quotidiano di economia ecologica “Greenreport”, rimasi stupefatto. Non volevo credere alle parole che mi scorrevano sotto gli occhi scritte da Giorgio Nebbia, il padre fondatore dell’ecologia economico-sociale oltre che parlamentare italiano dal 1987 al 1992. La notizia era che sulla Terra ogni anno vengono estratti dal suolo più di 40 miliardi di tonnellate di sabbia e ghiaia, una quantità di materiale superiore di nove volte a quella che si ricava dai pozzi petroliferi! Di fatto, molti di noi non sanno quanta sabbia e quanta ghiaia sono necessarie per la preparazione del calcestruzzo per edificare case, palazzi, grattacieli, ponti, stadi, moli marittimi, piste di atterraggio per aerei supersonici e ad elica e tante altre strutture, in sostanza tutto quello che ci circonda in molti luoghi del mondo: oggi osserviamo queste opere monumentali con una certa indifferenza, come se fossero sempre esistite.

Durante la nostra storia evolutiva tutti hanno voluto costruire qualcosa nella loro vita. Quando i nostri lontani antenati hanno iniziato a lasciare le caverne per esplorare l’ambiente circostante hanno costruito delle capanne provvisorie per ripararsi dal freddo e dagli animali feroci durante la notte. Poi i tempi sono cambiati e i nostri antenati sono diventati sempre più stanziali e hanno iniziato a costruire qualcosa di molto più solido di una capanna di paglia e legni. Hanno cominciato con degli edifici di pietra e oggi abbiamo ancora i resti di questi monumenti del passato, almeno di quelli più importanti che si sono conservati, pensiamo alle piramidi, ai templi dei Maya, ai ponti romani tuttora in piedi, agli anfiteatri sparsi un po’ in tutti i paesi del Mediterraneo o ai palazzi rinascimentali in Italia. A quei tempi non c’era ancora il calcestruzzo, ma furono comunque costruiti edifici imponenti grazie al contributo di una massa enorme di schiavi provenienti dai Paesi che venivano conquistati durante le guerre; anzi, uno scopo importante delle guerre era proprio questo: rifornirsi di manodopera a buon mercato per farla lavorare nei Paesi dei conquistatori. Oggi non si fanno le guerre esclusivamente per questo, ma vengono utilizzati altri strumenti molto più sottili che nel passato, per esempio con la CFA -Comunità Finanziaria Africana- nelle ex-colonie francesi da parte della Banca di Francia, con le concessioni secolari alle multinazionali occidentali per l’estrazione di minerali preziosi, inclusa la corruzione dei governi locali, eccetera, affinché i Paesi ricchi possano rifornirsi di operai mal pagati dai Paesi poveri e indebitati: il risultato si chiama “emigrazione economica di massa”.

Tornando ai 40 miliardi di tonnellate di materiale estratti all’anno per fare il calcestruzzo e considerando che la sua invenzione risale al 1854, cioè a quando un architetto inglese di Newcastle, William Wilkinson, lo utilizzò per la prima volta, nel mondo abbiamo consumato una quantità di suolo con cui avremmo potuto costruire un pianeta, cioè circa 7 trilioni di tonnellate di sabbia e ghiaia insieme. Va anche considerato che poi, nel 1879, arrivò il cemento armato che, oltre al consumo dei materiali precedentemente usati, iniziò quello del ferro.

Ora qualcuno potrebbe avanzare delle obiezioni e dire che questo è stato il prezzo che abbiamo dovuto pagare, dopo tutto non molto alto, per il progresso. Non potevamo rimanere per sempre nelle caverne! Questo è vero, ma quando abbiamo cominciato a costruire con il cemento armato, abbiamo posto dei limiti allo sfruttamento del suolo e dello spazio necessari? Il risultato è stato che gli abitanti delle metropoli, se possono permetterselo, per vivere un fine settimana di relax circondati dalla natura (più o meno incontaminata), devono fare centinaia di chilometri in macchina e quindi bruciare una grande quantità di carburante, consumare energia elettrica per riscaldarsi nelle seconde case, per refrigerarsi durante l’estate, per alimentare cucine economiche, frigoriferi e forni a microonde, per ricaricare batterie di computer e telefonini, eccetera.

Un’altra notizia stupefacente è che in alcuni Paesi, data la foga con cui si vogliono edificare nuove città e nuovi quartieri residenziali, come ad esempio a Singapore, una delle città-stato più ricche al mondo, esiste un mercato, in gran parte clandestino, della sabbia necessaria per costruire, sabbia che in questo caso viene importata dalla confinante Malesia e persino dal Vietnam! I soldi che i costruttori investono per fare queste cose non potrebbero essere utilizzati per altri scopi, anche con ragionevoli profitti, per salvaguardare l’ambiente e non per distruggerlo? Per assurdo, qual è il senso di avere a Dubai (Emirati Arabi Uniti) il grattacielo più alto del mondo (829,80 m), il Burj Khalifa, quando questa città è fondamentalmente circondata dal deserto? Sotto certi aspetti, anche se la manodopera per costruire il Burj Khalifa proviene da Paesi molto poveri, principalmente dall’India, e non ha nemmeno la libertà di rimpatriare quando lo desidera (praticamente è schiava), è più accettabile vedere un grattacielo in mezzo al nulla che costruirlo per esempio in Brasile a ridosso della foresta amazzonica o addirittura al suo interno? Tanto per intenderci, Manaus si trova nel cuore dell’Amazzonia ed è una città di più di 2 milioni di abitanti, ancora in pieno sviluppo, nonostante abbia già una serie di grattacieli da far invidia (secondo certi criteri, ovviamente) a molte altre città del mondo.

L’impatto che l’espansione urbanistica in Brasile ha avuto sulla biodiversità, non solo nella zona di Manaus, presso le tribù autoctone in Amazzonia, per esempio i Sataré Mawé, gli Akuntsu e gli Awá-Guajá, ora ridotte al lumicino, è stato devastante. Intere tribù, per forza o per amore, sono state costrette a lasciare i loro territori nativi a suon di pesticidi e fertilizzanti fatti cadere sulle loro teste (da quelle parti, questi prodotti, come in Canada e negli Stati Uniti d’America, vengono lanciati dall’alto da piccoli aeroplani) per proteggere da insetti e parassiti produzioni non autoctone di frutta esotica, di mais e di varie altre colture, impiantate su terreni strappati al suolo originario, cioè quello forestale. Inoltre gli indigeni sono dovuti scappare, almeno quelli che sono sopravvissuti, a causa del disboscamento sfrenato, in seguito all’arrivo di nuovi coloni, peggiori dei vecchi, che hanno invaso e distrutto ogni angolo della loro foresta, mentre proprio queste comunità indigene che sono sempre vissute in questi luoghi da millenni sarebbero state le più adatte al mantenimento equilibrato dell’ambiente e a una buona e sana conservazione della biodiversità in Amazzonia.

Ma non dobbiamo addebitare solo al Brasile tutte le colpe di questo grande disastro ecologico che ha ripercussioni drammatiche in tutto il mondo, ma a molti Paesi europei e nord-americani e alla Cina che comprano dal Brasile carne ovina e bovina, mais, segale, semi oleosi di lino e di girasole, cotone, per non parlare del caucciù, e infine legno pregiato, per esempio l’ipè, uno dei legni più richiesti dal Brasile che attualmente vale più di 2.500 dollari americani al metro cubo, cioè 25 volte circa il prezzo di un barile di greggio. In sostanza, non serve a niente sparare sentenze contro queste politiche ambientali distruttive, soprattutto se vengono lanciate da uomini politici, a volte anche da ambientalisti da salotto - e ce ne sono molti -, che parlano dai palazzi sontuosi del potere economico e finanziario, mentre calpestano pavimenti di legno pregiato proveniente proprio dal Brasile!