Siamo a Firenze, in una stanzetta fumosa di un bar illuminata solo da due lampade a gas appese al soffitto. Il periodo è di quelli carichi di aspettative e di speranze, quello degli anni turbolenti prima dell'Unità d'Italia. Da una parte le sommosse popolari riuscivano qualche volta ad instaurare governi provvisori e a proclamare repubbliche, dall'altra gli austriaci schiacciavano le rivolte e ristabilivano i vecchi ordinamenti.

Ma a Firenze, in quella metà tormentata dell'Ottocento, il governo illuminato dei granduchi, favorendo una maggiore tolleranza politica, aveva lasciato la porta aperta alla crescita di una vivacità culturale, ormai incontenibile come le aspirazioni rivoluzionarie risorgimentali. Fu proprio in quella stanza densa di fumo e colma di grida del Caffè Michelangiolo, nell'allora via Larga (oggi via Cavour), che tra avventurieri e ribelli trovarono spazio anche un gruppo di giovani artisti pronti a fare la rivoluzione non solo sui campi di battaglia, ma anche e soprattutto in pittura. Teste calde anche loro: giovanotti anticonformisti e turbolenti convinti che la cultura avesse un ruolo decisivo per cambiare le sorti dell'intera penisola.

Certo, da studenti irrefrenabili e bohemién della vicina Accademia delle Belle Arti, non sapevano ancora quale fosse la via da seguire. Ma tutti erano d'accordo sulla assoluta necessità di cambiare i dogmi della pittura ufficiale, che imponeva solo immagini e racconti storici.

Eccoli, allora, i futuri Macchiaioli: Giovanni Fattori in primis, sanguigno e burlone, Raffaello Sernesi, fervente garibaldino, Telemaco Signorini, Odoardo Borrani, Silvestro Lega, Cristiano Banti, Adriano Cecioni e tutti gli altri protagonisti della singolare impresa. Perché quella dei Macchiaioli fu un'avventura artistica dentro la più grande avventura del Risorgimento e dell'Unità d'Italia.

Una mostra eccezionale ce la racconta nelle sale di Palazzo Blu a Pisa dove sono state raccolte 126 opere, per lo più provenienti da collezioni private e quindi inaccessibili dal pubblico. “Sulla vicenda pittorica di questi giovani progressisti, toscani e non, si fonda il nostro Novecento” sostiene la curatrice Francesca Dini. “I Macchiaioli sono infatti una delle più originali avanguardie nell'Europa della seconda metà del XIX secolo. Di questo importante movimento molto si è detto e rappresentato senza che si sia riusciti a restituirgli appieno quella visibilità internazionale che gli spetta”.

Con la mostra pisana, organizzata da Fondazione Palazzo Blu e MondoMostre, i Macchiaioli sono di nuovo alla riscossa. E se dipinti come Cucitrici di camicie rosse e Il 26 aprile 1859 a Firenze, di Odoardo Borrani, ci riportano agli avvenimenti storici di metà Ottocento, così come Il campo italiano dopo la battaglia di Magenta di Giovanni Fattori, altre opere ci restituiscono, invece, il dizionario della loro nuova pittura: non più scene della Grande Storia, ma la vita di tutti i giorni. Non più il primato del disegno, ma il regno del colore e della luce. Al diavolo anche il vecchio atelier perché l'artista col suo cavalletto dipinge all'aria aperta. Un percorso emozionale quello che da Palazzo Blu ci porta nelle campagne toscane dell'epoca, sulle coste o negli ambienti familiari dove donne e uomini sono dediti a quotidiane attività. “Avevano capito che il paesaggio era la via della modernità”, suggerisce Francesca Dini, storica dell'arte e autorevole esperta dei Macchiaioli. “Poi, timidamente, guardano anche la vita che li circonda, liberandosi, così, definitivamente dalla pittura storica”.

Suggestiva l'immagine che ci offre Raffaello Sarnesi in Pastura in Montagna e coinvolgenti le donne di Vincenzo Cabianca Sul mare in attesa vicino a un muretto in una quieta sera d'estate. E mentre Silvestro Lega ci regala momenti di intimità femminile con Lettura Romantica e La visita, Giuseppe Abbati tocca le corde della nostra sensibilità riflettendo nel fiume un paesaggio di campagna (Arno alla Casaccia). L'intera mostra è un tuffo nelle emozioni. Emozioni che non ci aspettavamo forse perché non vengono da luoghi distanti e magari sconosciuti, ma da ciò che è molto vicino a noi, davanti a casa nostra.

“Dobbiamo liberarci dal confronto che ci viene sempre proposto con gli Impressionisti. Questa competizione ha lungamente nuociuto alla corretta lettura della vicenda dei Macchiaioli”, sottolinea la curatrice della mostra. “Poiché se il linguaggio innovativo dei toscani non può competere in termini di fungibilità e universalità con quello dell'Impressionismo francese, può farlo, invece, per portata poetica: nell'arte dei Macchiaioli sono riflessi i valori ideali e civili di una società intera con le sue aspettative di libertà e di giustizia sociale”.

Tuttavia, è innegabile che tra Impressionisti e Macchiaioli ci sia un legame di parentela. Non a caso tra le avanguardie toscane e quelle parigine non mancarono contatti diretti. Nel 1855 Serafino De Tivoli, insieme a Domenico Morelli e Francesco Saverio Altamura visitarono l'Esposizione Universale di Parigi e conobbero gli artisti della scuola di Barbizon e la loro esperienza di pittura del paesaggio a contatto con la natura, esperienza di cui discussero con gli altri frequentatori del Caffè Michelangelo e che cominciarono timidamente a introdurre anche nelle loro opere. Lo stesso Diego Martelli, ideologo del gruppo soggiornò a più riprese nella capitale francese tessendo rapporti di corrispondenza e amicizia con gli artisti parigini. D'altronde il giovane Degas fu a Firenze e frequentò per un periodo il Caffè Michelangelo dipingendo anche un ritratto di Diego Martelli.

Inutile però affannarsi per capire quale dei due movimenti sia stato il primo a dare il via alle danze di rinnovamento perché sarebbe come domandarsi se viene prima l'uovo o la gallina. Di fatto, i tempi in Europa erano maturi per un cambiamento dell'arte pittorica che a Parigi si coniugava con il grande dibattito sull'industria e sull'innovazione e in Toscana con lo spirito patriottico del Risorgimento.

Tra i due gruppi contrari all'accademismo esistono infatti molte similitudini, a partire dalla rivalutazione del paesaggio e della vita quotidiana, dalla scelta del plein air e da una ricerca affannosa della luce, vero soggetto della pittura di entrambe le avanguardie. Ma se l'approccio è stato simile, il risultato è diverso. La tecnica della macchia (a cui i Macchiaioli devono il nome ) che consiste nell'abbozzare dal vero un soggetto attraverso il colore, senza ricorrere al disegno, causa una luce più diretta rispetto ai toni più morbidi e diffusi dell'Impressionismo.

Quella leggera oscillazione che caratterizza i dipinti francesi non si trova nei Macchiaioli, i quali manterranno sempre la forma intatta nella sua integrità. Troppo forte in Toscana la tradizione rinascimentale, sostengono molti storici dell'arte, per perdere il senso della prospettiva e la concretezza della figura. Se però gli Impressionisti hanno avuto più successo è solo perché Parigi, allora culla dell'arte, poteva contare su numerosi mercanti pronti a far conoscere al mondo la loro pittura, mentre Firenze e la stessa Italia appena nata erano allora ristrette al rango di provincia dell'arte.

Il tempo dei Macchiaioli, tuttavia, fu molto breve. Il gruppo, nato nel 1855, avrà il suo momento aureo tra il 1859 e la fine degli anni Sessanta, ma nel 1870 cominciò già a disperdersi. I valori del Risorgimento erano ormai drammaticamente tramontati, qualcuno tra i ribelli avanguardisti era morto in battaglia, altri, come De Nittis e Boldini, vivevano ormai a Parigi, lo stesso Fattori si guadagnava da vivere insegnando in una scuola. Nonostante l'ideale per cui avevano lottato - l'unità d'Italia - alla fine fosse stato vincente, non diventarono mai uomini di potere e chi non tentò l'avventura francese morì povero, così come povero aveva vissuto. La mostra chiude il sipario con opere più convenzionali che rasentano il Novecento dove traspare la disillusione per l'infrangersi di alcuni ideali sociali, che nonostante la riuscita dell'impresa garibaldina, erano rimasti sogni. Il soldato morto e abbandonato in campo nemico nell'opera di Fattori Pro patria mori appare come il simbolo di quello sconforto.