Si chiamava Percival Mabasa, era un giornalista filippino che aveva scelto di combattere le sue battaglie usando la radio come strumento per comunicare le sue idee. E di battaglie, negli anni, Mabasa ne ha condotte tante, Forse troppe, visto che l'hanno ammazzato all'ingresso di un complesso residenziale di Manila.

In automobile si spostava da solo, come sempre, forse temendo per la sua vita e per quella di chi avrebbe potuto essergli accanto se - ma poi è diventato ''quando'' - avessero deciso di regolare i conti con lui. Sto parlando di Mabasa - che a 63 anni continuava a lavorare con l'entusiasmo di sempre - perché, nel momento in cui scrivo e il tassametro dei cronisti assassinati è fermo, continua lo stillicidio dei morti tra coloro che, scegliendo la professione giornalistica, hanno voluto schierarsi, spesso accanto ai più deboli, a coloro cui non viene dato diritto di parola, a quelli che sperano che la fine è lontana se ci sarà sempre qualcuno talmente coraggioso da raccontare la verità.

Le Filippine sono una terra di frontiera, dove i poteri, da quelli legali, a quelli istituzionali o criminali, trovano sempre un terreno di scontro. Difficile tenere il conteggio di quante siano state, nell'arcipelago, le vittime della violenza.

Ma fa sensazione che negli ultimi 35 anni ben 187 giornalisti siano stati assassinati, per quello che dicevano o scrivevano, per quello che avevano deciso di raccontare.

Il giornalista, quindi, come bersaglio dei poteri, a tutte le latitudini, anche se per fortuna non sempre davanti ad un'arma.

E' un processo mentale che attraversa tutto il mondo, perché si interpreta il ruolo e le responsabilità del giornalista a secondo di chi ne guarda l'opera. Ma spesso, quando non sono veri e propri cecchini armati di parole schierati accanto - più spesso ai piedi - della classe dominante, i giornalisti pagano per quello che raccontano o sostengono, per le idee che li spingono a mettere in gioco anche la loro vita.

Da questo punto di vista, la sorte di Percival Mabasa era segnata perché aveva sempre contestato l'ex presidente Duderte (quello che si faceva vanto delle morti di trafficanti e spacciatori) e ora aveva cominciato a fare lo stesso con il nuovo, Marcos jr, figlio del dittatore che regnava sulle Filippine di qualche anno fa. In chi ha il potere si insinua sempre la tentazione di catalogare chi dissente dal suo pensiero.
Quindi chi meglio dei giornalisti a fare da bersaglio?

Non bisogna, però, cadere nell'errore che questo sia un problema solo dei Paesi in cui il diritto di esprimere le proprie idee viene represso. Lo sappiamo bene in Italia, come testimoniano le morti di Giancarlo Siani, Mauro De Mauro e Mario Francese, non dimenticando tanti che oggi vivono sotto scorta. Tacendo delle continue campagne di odio che vengono scatenate sui social, ormai terreno di una persecuzione che solo sulla carta è virtuale.

Non c'è bisogno di spiegare come - lo diciamo solo perché non se ne cancelli presto il ricordo -, con un dazebao pubblicato dal blog del capo di un movimento dall'incerta ideologia, venivano effigiati i giornalisti ''irrispettosi'', additandoli al popolo della Rete.

Un esempio più recente di come il potere intenda il rapporto con i giornalisti viene dagli Stati Uniti, dove l'ex presidente Donald Trump ha citato la Cnn accusandola di diffamarlo e chiedendo, come ristoro per la sua onorabilità ''violata'', danni per 475 milioni di dollari, in base ad una quantificazione i cui elementi sarebbe interessante conoscere.

Al di là del mero aspetto economico (una somma del genere farebbe comodo a molta gente), l'azione legale di Trump ha il vero obiettivo di silenziare una voce da sempre molto critica nei suoi confronti e soprattutto farlo quando è ormai partita la corsa ad una nuova nomination repubblicana in vista delle presidenziali del 2024.

La violenza contro i giornalisti, quindi, può assumere volti diversi e fare uso di tutte le armi, compresa quella economica.