Questi Greci erano superficiali per profondità.

(Friedrick Nietzsche, La Gaia scienza)

Se non altro mi fai ridere. E sembri averla capita.
Che cosa? La vita. Se uno dei pochi a vederla per quello che è.
Come, come un colossale: E allora?

(Crescere a Manhattan, Zero Gravity)

In “Crescere a Manhattan” abbiamo quasi una sceneggiatura, la sintesi distillata di un film che sembra la quintessenza di tutta l’opera di Woody Allen. Non a caso è messa a conclusione della raccolta “Zero Gravity” (La nave di Teseo, 2022) ma mentre tutti gli altri pezzi, inediti o meno, restano a surfare (magnificamente) sul registro comico-surreale tipico di Allen dove attraverso l’iperbole e gli ossimori vengono messe in scena le paradossalità di un corteo di personaggi e situazioni che manifestano il non sense dell’esistenza, pur infarcita di fuochi d’artificio intellettuali e mondani, quest’ultimo pezzo si vena di malinconia, o, meglio di quell’antica e perenne “Malincolia” (cioè: bile nera) che gli antichi associavano ad un indole rabbiosa, contestatrice, mormoreggiante, angosciata e angosciante. Tipo appunto l’angelo di Durer, che non è triste ma arrabbiato, ha reso la sua rabbia carne e ci medita su. Troviamo la stessa “rabbia” sedimentata e meditante anche nello sguardo della Gioconda e della donna della Tempesta di Giorgione, ad ingrandire al punto giusto il dettaglio degli occhi. Queste mie riflessioni sono spinte dal desiderio sincero di difendere la profondità della poetica di Woody Allen, a dispetto della mediocre introduzione a “Zero Gravity” che viene firmata Daphne Merkin. Dal suo curricullum ci aspetteremmo un’analisi letteria più seria, pur negli spazi ristretti di una semplice introduzione, e invece si riduce a dire che i pezzi di Woody fanno ridere anche se scritti, che si sente la sua voce mentre li si legge (ovvio, data la celebrità visiva mondiale dell’autore) e che in tempi drammatici di guerra ci vogliono dei clown per alleggerire la mente. Un uso “consumistico” dell’opera di uno degli autori più importanti del Novecento, come fosse un semplice psicofarmaco utile in caso di depressione.

L’errore di metodo è semplice: distinguere il Woody scrittore dal Woody cinematografico, mentre invece non c’è alcun differenza, anzi quando scrive mi sembra più universale e incisivo in quanto appare evidentemente libero dai limiti impliciti nelle scelte (pur quasi sempre ottime) dei personaggi filmici. Premesso che l’arte di “pulire la mente” è comunque un’arte aristocratica, alchemica e rara, mi sembra ingeneroso e ingiusto ridurre la prosa brillante e ingegnosa di Woody ad un semplice gioco di clowneria. Una cosa è un clown un'altra Luciano di Samosata, Aristofane o Woody Allen che a loro somiglia. Anche in Stefano Benni e Paolo Villaggio scrittori abbiamo un simile uso di enfasi e iperbole surreale ma infatti anche loro sono intellettuali ed ermeneuti del loro tempo. Ancora di più Woody Allen e non solo perché infarcisce le sue trovate comiche fecondissime di dotte citazioni musicali-letterarie e raffinato senso della mondanità newyorkese ma ancora di più perché nella sua opera il tono comico è un manifestarsi narrativo di una dimensione tragica universale.

Questo dato conosciuto e risaputo viene però analizzato in modo eccessivamente superficiale. Qui non si tratta semplicemente di un uso di un certo tipo di umorismo per velare, nascondere o bilanciare un sottofondo pessimista ma siamo ad un livello più alto e più fondo nel contempo: il “tragicomico”, cioè una delicata e difficile sintesi filosofica che appare ossimorica come il Barocco, che accosta gloria a miseria, o come dei futuristi che scrivono e che dipingono, per ingrassare altre polverose librerie o ammuffiti musei contro cui si scagliano. “Crescere a Manhattan” ci aiuta a comprendere la grandezza di questa poetica intellettuale e artistica, altro che clown! Non c’è mai spinta alla pura evasione o al puro intrattenimento nell’opera di Woody ma piuttosto gusto totale per la narrazione quale dimenticanza di se stesso e quale unico luogo di possibile abitazione e sopravvivenza. Woody è il demiurgo che crea magicamente un palazzo di fumi, profumi e illusioni sapendo che solo quest’arte gli permette di obliare e differire la morte. In questo è la stessa poetica di Carmelo Bene. Li distingue solo la dimensione in cui operano: la commedia per il newyorkese e il tragico pre-socratico per il salentino. Ma l’essenza macbethiana del non sense insolubile della Storia umana li accomuna intimamente. Woody attinge alle radici sileniche della commedia, dove si è “rapiti dalle ninfe” come ricordava Roberto Calasso chiosando il Fedro di Platone. La “materia” che mette in scena Woody è la “materia ninfica” di Porfirio (Sull’Antro delle ninfe) e di Paracelso, cioè quelle acque mentali immersive che mediano tra sogno, arte ed esistenza e dove il ritmo creativo segue dinamiche aree e fluide, come nei sogni. Allen è il satiro che solleva il sottile velo lunare che cela la bellezza della Ninfa dormiente, topo iconografico di secoli d’arte europea e tema non riducibile solo ad allegoria della scoperta dei segreti della Natura. Alzato il velo e consumato sotto la luna piena l’amplesso notturno la Ninfa tende a sfuggire di nuovo ma al Satiro resta il rito del creare, il canto del sacrificio, la sosta aionica ed epifanica della siesta meridiana, in altre parole comuni: l’invenzione della commedia. “Crescere a Manhattan” sublima il tragicomico proprio distillandolo, rarefacendolo, sfumandolo dolcemente verso il buffo e verso il rimpianto.

E’ una storia in cui l’autore reinventa le sensazioni postume del suo primo breve matrimonio giovanile per poi aggiungervi il tema dell’”incontro fatale”, ninfico, dove il dio Caso e il dio Destino giocano a rimpiattino e si confondono. Lei, Lulù, è perfetta sotto ogni punto di vista e perfetto è il loro invaghimento e la loro passione. Qui l’archetipo della Ninfa si confonde con l’amore dell’autore per New York quale luogo-non luogo universale, fluido, aereo, immenso. New York quale Amante e infatti Lulù lo inizia alla vita nel cuore della Metropoli fatto di gusti particolari, locali giusti, stile upper di una mondanità colta e dinamica. Eppure la Fortuna danza su di una instabile sfera e infatti Woody mette in scena in saggia gradualità l’emergere dell’insoddisfazione di Lulù e lo spezzarsi improvviso dell’Incanto. Il nostro autore è un geniale affabulatore che racconta sempre e solo del crinale esistenziale posto tra incanto e disincanto, teatro e istinto, sogno e ragion critica. Per questo la fiction artistica diventa non un surrogato della vita ma al contrario la dimensione più vitale e sorgiva dell’esistenza, fatta di illusioni e amarezza. Ecco la perenne vena greca di Woody: è la stessa di Pindaro (Pitica VIII), per il quale l’umanità è come l’ombra di un sogno dentro il quale occorre comunque essere abili a cogliere il raro splendore che appare all’improvviso, potente ma effimero. Allen trova questo splendore da mettere in scena nella commedia vissuta quale la forma di linguaggio più inclusiva per i casi della vita dove è la Donna il varco epifanico e ispiratore, la matrice narrativa dominante. Mentre in Carmelo Bene è la Tragedia che assorbe tutto, anche la commedia, in Woody Allen è la Commedia che assorbe tutto, anche la tragedia, come nel corteo delle maschere di cui parla Luciano nel Menippo o nell’allegoria della Fortuna di Lorenzo Leonbruno (Piancoteca di Brera). Non basta quindi l’affinità di passioni, gusti, interessi e il desiderio del desiderio: la giostra delle vicende non ha una logica ed Eros segue suoi capricci imperscrutabili. Elargisce bendato e sempre bendato toglie ciò che ha elargito. La superficie è ciò che appare dal profondo: l’apparente superficialità di Lulù, donna annoiata e blasè dell’alta società, esprime il tedio di un malessere spirituale profondo, universale. Noi siamo tristi clown se non percepiamo la verticalità tragica, stoica, nicciana e già greca che scuote e fà lievitare quale polo dialettico l’entusiasmo silenico senza fine del satiro Allen e la sua, unica, sostenibile leggerezza dell’essere.