L’orologio da polso inventato da Patek Philippe era inizialmente considerato un accessorio esclusivamente femminile, mentre tra gli uomini era diffuso l’orologio da tasca. Negli anni invece è diventato un must have per tutte le generazioni e sempre più spesso continua ad essere acquistato per esprimere un certo status symbol, soprattutto maschile.

Uscendo un po' fuori dai classici schemi convenzionali, è nata un’inedita collaborazione tra due aziende italiane, Seletti e D1 Milano, entrambe protagoniste di partnership con designer e creativi del panorama contemporaneo, che hanno proposto una coppia di orologi Polycarbon, realizzati da D1 Milano e ispirati al giorno e alla notte, metafora di tutti i contrari, resa esclusiva grazie a due dei pattern più amati e noti del design pop di Seletti. Prodotti in edizione limitata, gli orologi al quarzo sono tutti dei pezzi unici, water resistant, dotati di una cassa in policarbonato incisa con le icone del buio e della luce: un missile e un aereo di carta. Protagonisti dello special packaging, nato dalla creatività Seletti, anche due miniature in ceramica dei simboli della collezione.

Abbiamo incontrato durante la presentazione del progetto Dario Spallone, giovane fondatore di D1 Milano, riconosciuta realtà imprenditoriale dell’orologeria internazionale, con HeadQuarter a Milano ma protagonista di una crescita autentica, virtuosa e dinamica con uffici operativi a Dubai e Hong Kong.

Come nasce la collaborazione con il brand di design Seletti e la creazione di questi fashion watches?

Dario Spallone: Con Stefano Seletti avevamo un'amicizia in comune, quando l'ho sentito per la prima volta al telefono e' stato super gentile e disponibile e ci siamo subito trovati. Per me Seletti era uno dei brands piu fighi che c'erano, l'adoravo, ero un consumatore e impazzivo per il modo in cui comunicavano l'italianita' in un modo totalmente diverso ed inaspettato rispetto a quello che e' il concetto tradizionale di italianita'. Ha un linguaggio rivoluzionario, rompe tutti gli schemi ma e' super lineare e coerente e bello. Quando c'e' stata l'opportunita' ho insistito tantissimo non tanto per il prodotto realizzato ma per avere la possibilita' di confrontarmi ed essere contaminato da una persona come Stefano, dal suo mondo e da quello che poteva farci imparare.

Secondo la filosofia di Shunryu Suzuki “nella mente di principiante ci sono molte possibilità, in quella da esperto poche”. Data la sua giovane età quando ha fondato la startup D1 Milano, quali possibilità si sono poi rilevate delle opportunità?

Dario Spallone: Sono assolutamente d’accordo con questa filosofia. Quando si è principianti si è abbastanza pazzi o stupidi da non riconoscere le complessità e le ramificazioni delle proprie scelte. Questo porta ad innovazione perché, anche se la probabilità gioca a svantaggio, quando si prova qualcosa che funziona ed è diverso si innova. Qui però secondo me ha un ruolo predominante la fortuna poichè statisticamente parlando è un gioco di probabilità in perdita. Un bravo imprenditore non si riconosce da queste opportunità create, neanche io potevo aspettarmele, la bravura secondo me è cogliere queste opportunità e creare una struttura che sia sostenibile nel tempo.

Come nasce D1 Milano e come mai questo nome?

Dario Spallone: Molti si focalizzano su come e' iniziato un progetto, secondo me paradossalmente questa e' la parte meno importante. Si pensa spesso che per iniziare qualcosa devi avere "l'idea della vita" o uno storytelling da far invidia a Baricco, in verita' io penso che quando questo accade c'e' poca autenticita'. Un progetto non inizia in un determinato momento, ma e' qualcosa in costante innovazione. Quando incominci devi essere o un disperato o un pazzo perche' il profilo di rischio di fare qualcosa da zero e' cosi alto che qualcuno sano di mente non giustificherebbe mai razionalmente questa scelta. Infatti essere giovane e' stata una fortuna da parte mia, ma la verita' è che è stata piu' fortuna che bravura nel buttarmi a capofitto, non riconoscendo la reale difficolta' di quello che volevo fare e la fortuna di poter sbagliare. Certo all’inizio avevo una passione per l'orologio inteso come accessorio, come uno dei pochi prodotti che potevano essere utilizzati come racconto di sè da parte di un uomo. Sarei falso a dire che era una passione spropositata perche' la passione si e' costruita giorno dopo giorno. Ogni giorno che passava, mi rendevo conto che questo progetto diventava un modo di comunicare chi fossi. I sacrifici che sono stati fatti in maniera naturale e le decisioni intraprese senza nessuna giustificazione logica sono quelle che mi hanno fatto capire quali sono i nostri valori e dopo quasi dieci anni posso dire finalmente quale e' il nostro pensiero: fare le cose fatte bene e migliorare costantemente. Per me l'azienda rappresenta quello che siamo, l'attenzione al dettaglio, la qualita', il nostro tono di voce, ed e' questo che ci rende diversi da tutti gli altri brands che possono competere nello stesso segmento: il nostro prodotto è la conseguenza del nostro essere.

Il nome paradossalmente è nato un po’ per caso, ne stavo cercando uno che non fosse troppo altosonante o classico, doveva essere foneticamente bello da sentire, giovane, moderno ma allo stesso tempo non doveva prendersi troppo sul serio altrimenti si rischiava di cadere nel banale, nel voglio ma non posso. In quei tempi si trasmetteva la pubblicità di Dolce & Gabbana “The One”, i social erano ancora agli albori e la TV regnava. Sentivo tutto il tempo questa pubblicità e mi sono detto perchè non D1, the one, e poi è venuto naturale confermarlo. Milano poi in teoria doveva essere il primo modello con cui uscivamo, la verità è che si è rivelato elemento aggiunto al nome, capace di connotare la nostra identità , veicolare Milano e le sue sfumature in giro per il mondo.

Ovviamente per noi il brand è D1 e Milano è un supporto.

Tre aggettivi per descrivere la sua realtà aziendale?

Dario Spallone: Non è facile rispondere a questa domanda, mi sento un po’ come ai colloqui quando chiedono di descriversi ed il problema è sembrare troppo “self-centered”. In realtà non saprei come qualcuno possa descrivere la nostra azienda dall’esterno, per me è importante che ci direzioniamo verso tre pilastri: il costante miglioramento, la costanza e la dedizione. Alla fine ci sono moltissime altre realtà più solide di noi, con più storia e tradizione ma l’unico modo per conquistare il mercato per noi è correre più degli altri, provando costantemente a migliorare noi stessi e facendolo con costanza. Quindi se qualcuno ci dovesse descrivere come determinati, costanti e perfezionisti sarebbe una gran bella cosa.

Materiali utilizzati e la peculiarità del vostro Made in Italy in cosa si riconosce? Come mai l’utilizzo del policarbonato?

Dario Spallone: In un contesto globalizzato di filiere industriali che vengono da tutto il mondo è difficile oggi giorno, soprattutto nel nostro settore, dare una connotazione fisica al Made in Italy. Sarebbe possibile dal punto di vista “legale” ma sarebbe più di forma che di sostanza, e questo non è quello che facciamo noi. Per me Made in Italy è italianità nel fare le cose: qualità eccellente, attenzione al dettaglio maniacale, forte identità anche a discapito del suo carattere elegante e semplice, ed un giusto rapporto con il proprio prezzo. Noi siamo maniacali in questi dettagli, lavorando costantemente con le persone migliori, i fornitori migliori, e innovando con ricerche cromatiche e materiche che fanno la differenza nei nostri prodotti. Per quanto riguarda il policarbonato, l’abbiamo utilizzato per svecchiare l’idea che un orologio in plastica sia di bassa qualità. Lavoriamo con il policarbonato e lo rivestiamo a mano con un trattamento soft-touch. Questo tipo di materiale che se categorizzato tecnicamente è molto banale, vedi la plastica, diventa un materiale tecnico all’avanguardia. La differenza quindi è in quello che facciamo e non è cosa si fa, ma come.

Come nascono le vostre collezioni?

Dario Spallone: Le capsule raccontano un po' le nostre passioni o la nostra infanzia. Kodak, Diabolik, Arancia Meccanica, Chupa Chups, Gremlins, Seletti, non c'e' nessuna linearita' tra questi progetti se non il fatto che amiamo questi brands così tanto che abbiamo pensato che potevamo creare qualcosa di interessante lavorando con loro. Per noi le collaborazioni non sono fatte per questioni commerciali ma perche' vogliamo essere contaminati da diversi mondi per fare qualcosa di nuovo. I dettagli su cui lavoriamo non hanno nessun senso, banalmente se vedi una collaborazione come Willy Wonka, su un orologio in policarbonato abbiamo utilizzato una placcatura in PVD marrone a 0.8 micron, il quadrante che riprende in 3d la forma del cioccolato ed un packaging dove tutto era personalizzato a tema, l'attenzione al dettaglio e alla coerenza e' il nostro unico obiettivo e facciamo tutto questo perche' ci diverte farlo.

Competenza, coraggio imprenditoriale e determinatezza: in quale si riconosce?

Dario Spallone: Per essere un imprenditore secondo me ci vogliono qualità diverse dai normali stereotipi. In questi anni abbiamo assistito ad una spinta da parte dei media e delle istituzioni a valorizzare questa figura come se fosse un “deus ex machina” che da solo porta avanti tutto, un po’ lanciando il messaggio che “se non fai l’imprenditore” non sei bravo abbastanza. Basta analizzare un po' la percentuale di giovani come me come vogliono imbattersi in questo percorso, molto maggiore rispetto agli anni scorsi. Secondo me per essere imprenditore devi avere un carattere ambivalente: da una parte devi avere la pazzia per rischiare, quando incominci un’impresa la probabilità di rischio non giustifica l’azione, e allo stesso tempo devi essere molto avverso al rischio, con così tante probabilità incontrollabili, un bravo imprenditore deve sapere controllare la maggior parte di variabili che può controllare. Naturalmente devi essere anche una persona determinata, creare un’impresa vuol dire andare avanti in decisioni mai prese prima ed essere in grado di risolvere problemi anche quando nessuno sa quale è la direzione giusta, ma sicuramente la determinazione aiuta ad andare avanti. E last but not least devi avere l’empatia per creare il team. Nessuno può fare niente da solo, la figura imprenditoriale deve essere quella che sa far performare il proprio team, dando per primo l’esempio e non pretendendo soltanto dagli altri.

Oggi la vostra realtà aziendale è riconosciuta a livello internazionale, quali differenze riscontrate in termini di mercato e di clientela tra l’Italia e l’estero?

Dario Spallone: Noi vendiamo maggiormente nel mercato estero. La grande differenza che vedo è che mentre all’estero questa visione che abbiamo noi dell’Italia ci è stata subito riconosciuta, l’attenzione al dettaglio, lo stile, la semplicità irriverente, in Italia il consumatore è stato molto più diffidente. Le nuove realtà all’estero, specialmente quelle italiane, sono viste con emozione, supporto. Vedono un’azienda giovane e vogliono supportarla. In Italia paradossalmente quando non si è una realtà affermata, si tende a essere diffidenti e questo paradossalmente è molto utile perché aiuta a migliorarsi costantemente. Poi noi ormai siamo nel mercato da quasi dieci anni quindi vediamo anche il cambio di percezione, più andiamo avanti più veniamo riconosciuti.

Si dice che “il fascino degli orologi risiede nel rendere concreta e visibile una cosa astratta come il tempo, che non si vede e non si tocca, eppure c’è”. Il suo rapporto con questa entità misteriosa? Ci sono state delle esperienze lavorative o vicissitudini particolari che l’hanno mai fatta sentire “fuori tempo” e quali invece i fallimenti che gli hanno permesso di crescere per arrivare oggi al successo.

Dario Spallone: Penso sia normale sentirsi fuori tempo a volte. Se la domanda è se ho mai avuto qualche insuccesso? Costantemente. L’unico modo per crescere è riconoscere i propri errori, anche oggi se stiamo facendo quello che stiamo facendo e non siamo il doppio di dimensione sicuramente è perchè ci sono molti errori che potremmo migliorare. Nel momento in cui pensi che stai facendo tutto bene, secondo me sei finito. Si può sempre spingere di più, e per farlo bisogna riconoscere i propri insuccessi e saperli gestire. Quindi se parliamo di insuccessi per me fanno parte dell’ordinaria amministrazione di crescere. Se parliamo di veri e propri fallimenti, questi hanno una diversa connotazione. L’unica differenza tra fallimento e insuccesso è che nel fallimento hai rischiato con un profilo di rischio che non potevi permetterti, da qui il proverbio “fare il passo più lungo della gamba”. Ed è qui che si riconosce un bravo manager o imprenditore, non nel raggiungere il successo ma nel sapere quali rischi prendere o non prendere per evitare di inciampare su fallimenti che sono degli ostacoli alla crescita e non in insuccessi che sono necessari alla crescita.