Qualcuno potrebbe sollevare il dubbio che le scimmie possano avere delle capacità metacognitive, anche se diversi esempi ci dimostrano il contrario.

Però, prima di illustrare questi esempi, vediamo che cosa vuole dire possedere delle capacità metacognitive di un certo livello. Quando noi esseri umani riflettiamo sui nostri pensieri, cioè quando riflettiamo su noi stessi, come è possibile che il nostro “Io” diventi contemporaneamente percettore e percepito, osservatore e osservato in un fenomeno psicologico così complesso? Metacognizione in sostanza vuol dire pensare, non con, ma sulla propria mente, poter rimuginare i propri pensieri, ad esempio i propri successi o insuccessi del passato, diventare consapevoli degli stimoli che ci provengono dall’ambiente e dalle altre menti e poterli elaborare. Noi esseri umani abbiamo sempre creduto di essere l’unica specie a poterlo fare e quindi di essere consapevoli dei nostri pensieri. Allora sorge spontanea una domanda: anche gli animali possono conoscere i vari stati della loro consapevolezza e quindi, per esempio, dei loro sentimenti ed elaborarli metacognitivamente?

Prima di andare avanti però dobbiamo chiarire due punti fondamentali. Il primo risale addirittura a Cartesio il quale sosteneva, giustamente, che solo l’Homo sapiens fa uso delle parole per dichiarare il suo pensiero (ai suoi tempi non era ancora diffuso il linguaggio dei segni) e che gli animali non possono avere questa possibilità. In realtà tutto inizia molto più tardi, nel 1960, quando il ricercatore americano William C. Stokoe pubblica Sign Language Structure anche se, a dire il vero, numerosi tentativi sull’uso di un linguaggio dei segni risalgono a molto tempo prima che Stokoe pubblicasse il suo libro. Il secondo punto invece è molto più attuale, sia rispetto, ovviamente, a Cartesio, sia a Stokoe, e riguarda il fatto che ancora non abbiamo un’evidenza neurobiologica completa di come funzioni il nostro pensiero e il pensare sul proprio pensiero, limitandoci a sostenere che si tratta di prodotti causali e quindi di una proprietà del nostro cervello.

Cognizione animale

Innanzitutto non dobbiamo fare di ogni erba un fascio! Non tutte le specie animali dimostrano di possedere queste abilità cognitive o almeno allo stesso livello di quelle umane. Un criceto, nonostante sia un mammifero, non lo può fare come una scimmia, soprattutto se antropomorfa (scimpanzé, gorilla e orango); un rettile non può farlo come un gabbiano né una libellula come una rana. Dobbiamo sempre tener conto delle caratteristiche specifiche delle specie, dell’ambiente in cui vivono e del loro contesto sociale e organizzativo.

Molti animali vivono una vita piuttosto solitaria, con i maschi che si incontrano con le femmine solo nel periodo degli amori; altri invece vivono insieme in contesti sociali molto complessi con un alto numero di individui che compongono i gruppi: per esempio, in uno stormo di uccelli ce ne possono essere a migliaia. Un altro elemento importante da tenere sempre presente quando parliamo di metacognizione, è la dimensione del cervello in relazione a quella del corpo: tanto più piccolo è questo rapporto, tanto più efficienti e complesse sono le attività corticali. Poi non possiamo paragonare la complessità cerebrale di un insetto con quella di un mammifero.

In un mammifero, ad esempio in un elefante, le reti neurali e il numero delle sinapsi sono immensamente più grandi che in uno scarabeo stercorario (con tutto il rispetto per questo coleottero che ha una funzione ecologica importantissima, interposta tra gli animali più semplici di lui e quelli più complessi). Allora la domanda è: perché a uno scarabeo stercorario la metacognizione potrebbe essere quasi superflua e a uno scimpanzé invece no? Lo scarabeo stercorario nel suo bagaglio genetico ha un insieme di istruzioni che gli consente di vivere molto bene nel suo ambiente manifestando sempre gli stessi comportamenti e perfettamente adeguati alla sua sopravvivenza, senza errori. Per esempio, arrotola, conserva e nasconde lo sterco degli animali, che potrebbe trasmettere infezioni microbatteriche molto gravi ad altri animali, per poi poterlo utilizzare in futuro a scopi alimentari: un comportamento, quindi, utile per tutti.

Per uno scimpanzé la questione è diversa. Per esempio, quando viene sottoposto a dei test di laboratorio, prima di prendere una decisione, prima di fare una scelta o un’altra, pensa, riflette su quale sia la soluzione migliore da prendere per raggiungere il successo. Questa è metacognizione. Anche noi uomini facciamo spesso le stesse operazioni mentali di fronte ad un problema, soprattutto quando ci sentiamo insicuri sul da farsi. Pensiamo a come poterlo fare nel migliore dei modi e così dovrebbe sempre essere.

Quando sappiamo di non sapere o di sapere in parte una cosa, riflettiamo o cerchiamo di incrementare le conoscenze con altre strategie intellettive, cioè in astratto, sfruttando al massimo la nostra memoria, anche se occasionalmente le scelte potrebbero scaturire da meccanismi inconsci: per esempio, rispondiamo adeguatamente ad un pericolo, senza essere coscienti di aver manifestato la risposta migliore che ci ha permesso di evitarlo. Solo dopo ci rendiamo conto di avere risposto nel migliore dei modi e che non ci poteva essere una risposta migliore. In psicologia questi si chiamano automatismi subliminali; gli etologi li chiamano meccanismi scatenanti innati. Non siamo solo noi uomini a possederli, ma anche molti altri animali, certamente molte specie di scimmie.

Conclusioni

A dire il vero si sa molto poco sulle capacità cognitive delle scimmie. Solo recentemente sono stati fatti degli esperimenti sui macachi, animali molto intelligenti, che dimostrerebbero di possederle. Se vengono addestrati a formulare dei giudizi retrospettivi in alcune prove di apprendimento, per esempio nel riconoscimento di immagini di cose o fotografie di altri animali, riescono a trasferire velocemente queste loro capacità percettive su compiti nuovi sfruttando tutto quello che avevano appreso precedentemente in altri test simili. Queste scimmie sono quindi capaci di trasferire delle loro vecchie conoscenze su problemi nuovi e diversi da risolvere. In tutti questi casi le scimmie, oltre ad avere una buona memoria a lungo termine e di essere molto ingegnose, dimostrano di possedere nella loro mente una capacità di giudizio retrospettivo notevole. I test hanno inoltre evidenziato che queste operazioni venivano svolte per raggiungere il successo ogni volta meglio di prima e sempre più velocemente.

In tutti questi casi le scimmie dimostrano inoltre che per risolvere dei problemi non hanno bisogno che qualcuno glielo spieghi con delle parole. Tra l’altro, ovviamente, non le capirebbero. In sostanza non hanno bisogno di un addestramento verbale, come invece si fa con i bambini che vengono invitati a risolvere il noto test della Torre di Hanoi, test in cui tre o più dischi di legno con un buco al centro devono essere spostati da un piolo ad un altro in modo da riprodurre la stessa configurazione iniziale a cono, cioè quella in cui il disco più grande è in basso al primo livello e quello più piccolo in alto, muovendo però un disco alla volta, mai non tutti insieme.

In sostanza vuol dire che le scimmie per maturare queste capacità metacognitive non hanno bisogno di essere istruite verbalmente. Esse sono capaci di pensare senza l’utilizzo di un linguaggio, come aveva a suo tempo intuito Cartesio, anche se capire veramente come riescano a farlo è molto difficile perché in questi casi l’unico punto di riferimento che abbiamo è la sperimentazione in laboratorio, anche se, a dire il vero, possiamo avere altri esempi osservando il loro comportamento quando sono liberi e in natura. Quando degli scimpanzé, che sono a volte anche dei carnivori, decidono di catturare un colobo rosso, una scimmia, per potersene poi cibare, organizzano una caccia collettiva con pochi soggetti ma molto qualificati per raggiungere con un ampio margine di certezza il successo. Se nella loro mente non avessero un’idea di come poter organizzare la caccia, non andrebbero da nessuna parte e non riuscirebbero a catturare niente, tanto meno un colobo.

Ritornando al laboratorio, c’è un test molto noto che consiste nel dover mettere in progressione i numeri da 1 a 9. Se non vengono scelti in questo modo l’insuccesso è garantito. Ora è vero che gli scimpanzé non hanno la possibilità di capire il concetto matematico di un ordine aritmetico, come lo capisce un bambino dopo i due-tre anni di età, ma riescono ad afferrare il concetto di una giusta progressione simbolica, e quindi a capire che 2 viene prima di 3 e 3 prima di 4, fino ad arrivare a 9, perché così facendo ottengono un premio o un rinforzo come quando diciamo ad un bambino “bravo” quando comincia a contare bene oppure se supera velocemente il test della Torre di Hanoi.

Il bambino e lo scimpanzé per arrivare a questi successi devono possedere una mente molto evoluta perché nelle altre specie di scimmie queste capacità metacognitive non sono state riscontrate. Alcuni scimpanzé sono stati capaci di capire il concetto del “molto” rispetto al “poco” e del “grande” rispetto al “piccolo”, addirittura il concetto dell’uguale (e per degli scimpanzé non è poco, anche perché hanno un cervello circa tre volte più piccolo del nostro), ma non di una progressione numerica complessa, da 9 in poi, come facciamo noi esseri umani che possiamo contare, se vogliamo, fino all’infinito.

Letture consigliate

Stokoe William. 1960. Sign Language Structure. Silver Spring, MD., Linstok Press.
Shettlesworth Sara. 1998. Cognition, evolution, and behavior. Oxford, Oxford University Press.
Udell Monique & Wynne Clive. 2013. Animal Cognition: Evolution, behavior and cognition. New York, Red Globe Press.
Safina Carl. 2018. Al di là delle parole. Milano, Adelphi e Book.
Tartabini Angelo. 2021. Pensiero animale. Roma, ORME Editore.