Ogni giorno, in ogni stagione dell’anno e a volte nella stessa stagione, invernale o estiva poco importa, si assiste nel mondo a fenomeni naturali sempre più accentuati, imprevedibili e violenti. Questa naturalmente è la nostra lettura perché se ipoteticamente ci potessimo mettere dalla parte del pianeta, scopriremmo che si tratta di evenienze legate al ciclo di vita e ai maxiequilibri terrestri, fenomeni talmente grandi e non governabili sui quali l’unica capacità che abbiamo è riuscire a comprenderne le dinamiche per poter mettere in atto tutti gli strumenti opportuni a viverne l’impatto e come per decine di migliaia di anni, ricostruire se possibile!

Non si tratta di minimizzare la forza di impatto delle modifiche indotte dall’azione dell’uomo soprattutto negli ultimi due secoli circa, modifiche che impattano e lo faranno ancora per decenni e secoli forse, mentre scienziati e meteorologi, ma anche geologi e ogni genere di disciplina che voglia capire l’essenza della vita e degli equilibri instabili, cercheranno di invertire tendenze chiaramente negative o minacce alla stessa sopravvivenza dell’umanità, ma anche delle specie animali e vegetali, e di porsi nell’esatta per quanto possibile prospettiva di quanto abbiamo di fronte agli occhi.

Se guardiamo alle deforestazioni dovute al mutamento di coltivazioni, allo sfruttamento oltre ogni limite delle risorse esistenti, all’estrazione forsennata di minerali e idrocarburi e contemporaneamente di quei materiali rari che sembrano essere l’alimento per ogni avanzamento tecnologico, all’incapacità di utilizzare in modo razionale quello che serve alla nostra civiltà, alla voluta arretratezza mentale che ci impedisce di contenere in modo drastico le emissioni nell’atmosfera responsabili di effetto serra, avvelenamenti e modifiche del sistema delle acque e via dicendo in una lunghissima, quasi inesauribile lista di ciò che facciamo male nei confronti della natura, allora non abbiamo che da guardarci allo specchio come umanità e chiederci perché continuiamo a farlo!

Al tempo stesso, con un pizzico di umiltà, segno evidente di intelligenza e scintilla per la comprensione, dobbiamo renderci conto che la capacità di interagire con gli elementi che abbiamo dimostrato è paragonabile a una spinta, ad un supporto nella direzione sbagliata e per questo dobbiamo frenare ed invertire la tendenza. Tuttavia è ben chiaro che quello che potremmo definire il “respiro” della Terra, cioè quelle leggi superiori che governano il nostro pianeta e tutti i corpi celesti - proprio in questi giorni è stato acceso il nuovo supertelescopio Webb (quello che manderà in pensione l’ormai amico di tutti Hubble) e ha dato un’immagine del cosmo ancor più sorprendente e interessante dell’immensità dell’universo – sono cosa ben diversa dai nostri conclamati danni che stiamo immettendo nella nostra piccola navicella.

Nei miliardi di anni di vita del sistema solare e della Terra e in quella piccola porzione che siamo in grado di conoscere e comprendere attraverso i segni lasciati sul corpo del pianeta, appare evidente infatti che un semplice spiffero (pensiamo alle gigantesche ma puntuali eruzioni di vulcani, ai terremoti che periodicamente segnano quel sottile strato che ci separa dal cuore bollente del pianeta e la loro versione marina) sarebbe in grado di far estinguere la vita come la conosciamo, salvo poi a ripresentarla in altre forme, in altri ambiti! Responsabilità, dunque, vuol dire fare ogni cosa che serve per non offendere la terra consapevoli di non dover aggravare quelle fasi che nel corso di decine di milioni di anni, di ere, hanno plasmato e modificato la faccia della Terra incuranti della nostra presenza o meno sulla superficie. La sostanza è che un po’ meno presunzione e un po’ più di serietà e di decisioni conseguenti potrebbero far tornare l’impronta dell’umanità in simbiosi con il pianeta e non contro di esso.

Ecco allora che torna in evidenza il senso del titolo di questa riflessione. Se il respiro della Terra incombe su di noi – non abbiamo scampo – è altresì evidente che i fenomeni che si determinano in direzioni opposte non sono in contraddizione ma sono lineari e in qualche modo comprensibili. Come sottolineato sta all’umanità sentire questo respiro, come forse facevano i primi ominidi digiuni di scienze ma attenti osservatori dell’esistente sin dagli albori, e ritrovare se non l’equilibrio, almeno il senso delle cose: in quell’istintuale spirito diretto alla sopravvivenza.

I fenomeni estremi che stanno, anno dopo anno e anche in questo che stiamo vivendo, portando alla desertificazione sempre più territori a diverse latitudini, il cammino sempre più accelerato dei ghiacci una volta eterni verso il ridimensionamento costante e la forse non troppo lontana loro estinzione (pensiamo a quanto accaduto proprio nelle corse settimane sulla Marmolada e al continuo distacco di masse imponenti di pack dall’Antartide e al ritirarsi impressionante dei ghiacciai dal Mar Glaciale Artico e dalla Groenlandia e dai territori del Nord delle terre emerse), non possono non interrogarci e porci di fronte a conseguenze che l’attuale umanità potrebbe vedere nel corso della vita ma che sono evoluzioni e mutamenti che segnano e hanno segnato intere ere geologiche sulla terra.

Due evenienze particolari, tra le tante in ogni angolo del globo, ma significative nella supposta non contradditorietà, sono i fenomeni sempre più frequenti di allagamento della città di Venezia e della sua laguna e il ritiro dei ghiacciai dalla zona che viene definita periglaciale sulle nostre Alpi. Due fotografie impietose di quello che sta accadendo nel mondo e sul quale l’azione dell’uomo imprime quella spinta di cui si parlava.

Il primo fenomeno è quello che fa definire Venezia come paradigma dell’allagamento costiero. Una ricerca condotta dall’Istituto di Scienze Marine del CNR, in collaborazione con l’Università del Salento e con l’Università di Zagabria in Croazia la città lagunare è stata usata come modello di analisi della dinamica dei livelli costieri del mare e per valutare e gestire il rischio di inondazioni lungo le coste, minaccia ormai incombente per lo scioglimento dei ghiacciai in tutto il mondo. Lo studio è stato pubblicato su Scientific Reports.

Il punto di partenza – come si legge nei documenti dei ricercatori - la particolare intensità dell’evento di allagamento del 12 novembre 2019 che ha interessato Venezia e le coste del Nord Adriatico, dovuta alla sovrapposizione di diversi fenomeni (marea, mareggiata, un livello anomalo del Mar Adriatico ed il passaggio di un ciclone in veloce movimento) che operando insieme, contribuirono a quella che per pochi centimetri non fu la peggior inondazione storica di Venezia, chiamata localmente “Acqua Granda”. Questa combinazione inaspettata e peculiare di fattori ha evidenziato la necessità di approfondire ulteriormente le cause che determinano le inondazioni costiere, osserva la ricerca, nella quale tuttavia si aggiunge che questi eventi di allagamento non sono da attribuire esclusivamente a forti mareggiate, ma sono riconducibili anche ad altri processi che agiscono su diverse scale temporali (da poche ore a diversi anni) e spaziali (da pochi a migliaia di km) e possono verificarsi contemporaneamente (compound events).

“A causa dell'aumento del livello medio relativo del mare (che risulta dalla subsidenza della superfice su cui sorge la città e dall’innalzamento del livello medio del mare), la marea e le componenti meteorologiche a lungo termine svolgono sempre più un ruolo dominante nel determinare inondazioni ricorrenti, anche se non eccezionali”, sottolinea Christian Ferrarin dell’Istituto di Scienze Marine del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr-Ismar). “L'analisi della serie storica delle misure del livello del mare ha inoltre evidenziato una tendenza all'aumento dell'intensità e/o frequenza degli eventi di allagamento negli ultimi decenni. Tale evoluzione sembra essere principalmente dovuta a processi a lunga scala temporale (stagionale, interannuale e interdecadale) la cui combinazione determina il precursore delle inondazioni a Venezia, osserva il ricercatore. La città, infatti, si presta particolarmente allo studio in quanto dal 1872 il livello del mare viene monitorato e la città è frequentemente esposta ad eventi di allagamento la cui frequenza è aumentata nel tempo e vanta inoltre un sistema di protezioni dalle inondazioni entrato in funzione dall’ottobre 2020 (MoSE) ed è un caso di studio di rilevanza internazionale in quanto sito protetto dall’UNESCO”.

L’analisi statistica ha evidenziato una significativa anticorrelazione tra la marea causata dall'attrazione gravitazionale che i corpi celesti esercitano sulla massa d'acqua (marea astronomica) e la componente dovuta alle mareggiate, che non può essere completamente giustificata da processi che occorrono nella zona costiera. “Gli eventi più estremi tendono a verificarsi in condizioni di media o bassa marea piuttosto che con l’alta marea. Infatti, durante gli eventi di mareggiata più estremi del 1966, 1979 e 2018, il picco della tempesta si è verificato in condizioni di bassa marea, limitando le già drammatiche condizioni di inondazione a Venezia”, conclude Ferrarin. “Questo argomento dovrà essere ulteriormente approfondito in futuro in quanto la sua comprensione è essenziale per lo studio dell’allagamento costiero, anche considerando il cambiamento climatico in cui i diversi processi potrebbero avere una diversa evoluzione”.

Il secondo fenomeno indicato riguarda come abbiamo detto l’ambiente periglaciale alpino la zona compresa tra il limite superiore del bosco e il limite inferiore dei ghiacciai e della copertura nevosa estiva, dove il clima è dominato da una significativa variabilità della temperatura, sia diurna che stagionale, e la pioggia e la neve cadono principalmente in primavera e autunno. Anche in questo caso ci soccorre l’azione di conoscenza del Cnr, con il suo Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica. In uno studio riferito al periodo tra il 1990 e il 2019, pubblicato sul Journal of Mountain Science, si dimostra che la zona compresa tra il limite superiore del bosco e il limite inferiore dei ghiacciai e della copertura nevosa estiva mostra un tasso di riscaldamento superiore rispetto a quello dell’intera area alpina, con le possibili e prossime conseguenze per i settori idroelettrico, ecologico e turistico. Pensiamo alla penuria di acqua di tutti i corsi d’acqua dell’arco della catena montuosa.

I ricercatori del Cnr-Irpi sottolineano che “l'ambiente periglaciale alpino, nel trentennio 1990-2019 ha fatto osservare tassi di riscaldamento di 0,4 °C, 0,6 °C e 0,8 °C ogni dieci anni, rispettivamente per le temperature medie, massime e minime annuali”, come spiega Guido Nigrelli. “Questi tassi di riscaldamento sono superiori a quelli osservati nello stesso periodo per le temperature medie sull'intera area alpina (0,3 °C ogni dieci anni) e a livello globale (0,2 °C ogni dieci anni)”.

L'ambiente periglaciale alpino, questa la deduzione scientifica, è dunque sensibile al riscaldamento climatico, così come importante dal punto di vista energetico, ecologico e turistico. “Molte centrali idroelettriche hanno i loro invasi artificiali di raccolta delle acque meteoriche e di fusione dei ghiacciai e delle nevi, localizzati proprio nelle aree periglaciali alpine”, sottolinea il ricercatore. “Inoltre questo ambiente, in conseguenza dell'aumento della temperatura dell'aria e della conseguente contrazione dei ghiacciai e della degradazione del permafrost, è sempre più interessato da processi di instabilità naturale che coinvolgono i versanti rocciosi, mettendo a rischio vie alpinistiche attrezzate e sentieri di alta quota con ricadute anche sul turismo, una delle principali risorse economiche delle popolazioni montane”.

In futuro molti ghiacciai - come è stato ricordato - potrebbero scomparire. “Nel 2050, sulle Alpi, numerosi ghiacciai sotto i 3.000 metri saranno estinti, lasciando il posto a zone periglaciali”, conclude Nigrelli. “In questo contesto potrebbero trovare spazio ulteriori infrastrutture e attività antropiche, alterando ulteriormente il già delicato equilibrio fra uomo e natura. Per adattarsi a questi cambiamenti e proporre forme di gestione del territorio più rispettose e sostenibili è indispensabile operare delle scelte basate su dati climatici ed ecologici aggiornati, come questo lavoro propone, per tutti gli ambienti di alta quota del mondo che stanno subendo cambiamenti simili”, il sostanziale allerta che gli scienziati pongono all’attenzione!