Nel 1961 l’artista olandese Maurits Cornelis Escher realizza una xilografia che raffigura nove formiche in fila sui due lati di un nastro chiuso ad anello. A prima vista non c’è niente di particolare da notare, se non l’eccezionale precisione del disegno. Però, se seguite con lo sguardo il percorso delle formiche, vi accorgete presto di qualcosa di sorprendente: ogni formica percorre contemporaneamente ambedue i lati del nastro. Il nastro ha un solo lato continuo, invece di due opposti.

Ciò è reso possibile dal fatto che un capo del nastro, prima di essere congiunto all’altro per formare l’anello, ha subito una torsione di 180 gradi, collegando così il lato esterno con quello interno.

La pista disegnata da Escher è un famoso oggetto matematico, noto come il Nastro di Möbius.

Sin da quando Möbius lo scoprì nel XIX secolo e lo presentò come oggetto d’interesse matematico, il nastro di Möbius ha affascinato sia i matematici che la gente qualunque. Con il trascorrere degli anni la popolarità e le applicazioni del nastro sono cresciute e oggi esso è entrato a far parte a buon diritto della matematica, della magia, della scienza, dell’arte, dell’ingegneria, della letteratura e della musica. È divenuto una metafora del cambiamento, dell’insolito, dell’iterazione e del rinnovamento.1

Ciò che sorprende del nastro di Möbius è la semplicità della sua realizzazione: un piccolo gesto (incollare in modo diverso i due estremi nel nastro) cambia radicalmente la situazione, trasformando due facce opposte in una unica faccia.

Per comprendere l’intreccio dei problemi del mondo contemporaneo il filosofo Edgar Morin ci invita a fare quello che fa il nastro di Mobius: trasformare il pensiero riduzionista corrente, che separa gli opposti, in un pensiero complesso, che unisce ciò che è diviso. Afferma Morin:

Il principio di riduzione induce naturalmente a ridurre il complesso al semplice. Così, esso applica alle complessità viventi e umane la logica meccanica e deterministica della macchina artificiale. Può anche accecare e portare a eliminare tutto ciò che non è quantificabile e misurabile, eliminando così l’umano dall’umano, cioè le passioni, le emozioni, i dolori, le gioie. […] Poiché la nostra educazione ci ha insegnato a separare, compartimentare, isolare e non a legare le conoscenze, l’insieme di queste costituisce un puzzle inintelligibile. Le interazioni, le retroazioni, i contesti, le complessità che si trovano nel “no man’s land” diventano invisibili.2

Il pensiero riduzionista ha costruito un mondo fatto di confini e filtri culturali, di distanze e gerarchie, di processi paralleli e indipendenti. Poi, nel giro di qualche decennio, questo mondo è andato in frantumi. Improvvisamente, ci troviamo a vivere in un mondo totalmente connesso, in un pianeta reso piccolo e unico dalle reti informative e logistiche. Il pensiero riduzionista scopre con sgomento che i processi si aggrovigliano in reti, che ogni azione produce effetti che rimbalzano indietro, che vi è una sproporzione incolmabile tra la potenza della tecnica e le forze della natura. L’incontro con la finitudine è traumatico: abitudini secolari di pensare e agire, di decidere e di organizzare si rivelano inefficaci. La sensazione è quella di un cerbiatto immobilizzato nella notte dai fari di una automobile.

Le reti informative e logistiche hanno fatto ciò che sanno fare le reti: mettere in relazione ciò che prima era separato. Hanno trasformato il mondo in un gigantesco nastro di Möbius, che abbatte i confini e mischia le cose. Il che ci obbliga a una revisione profonda del modo di pensare il mondo: le categorie distinte io/altro, mente/natura, umano/non-umano, vivente/non-vivente, non possono essere pensate più come disgiunte: ognuna deve nutrirsi dell’altra, ognuna implica l’altra.

Passare dal pensiero riduzionista, che separa e semplifica, al pensiero complesso, che distingue e tesse insieme, non è cosa facile: è necessario una profonda torsione cognitiva.

Per chiarire la difficoltà facciamo un esempio. Tutti siamo convinti che un fatto assume un diverso significato in dipendenza del contesto in cui è inserito. Pensiamo alla relazione che lega i comportamenti di un individuo alla cultura dell’organizzazione in cui opera. L’approccio riduzionista tradizionale, in voga nella maggior parte delle imprese, individua di solito una sola freccia di azione: dalla cultura organizzativa verso i comportamenti individuali, e si ferma qui. Il pensiero complesso chiede di fare un passo in più: di interrogarsi su come la singola persona recepisca e deformi la cultura organizzativa, e contribuisca a modificarla. Il pensiero complesso non assume l’individuo alla mercè dell’organizzazione. Contempla anche la possibilità opposta, che l’azione individuale modifichi il contesto. Trasforma la relazione tra individuo e organizzazione in una dinamica circolare. Implementare il pensiero complesso impone di dare uno specifico rilievo ai comportamenti individuali, di evidenziare la diversità, di analizzare i processi di auto-organizzazione dal basso, di sviluppare una nuova consapevolezza delle responsabilità individuali. Tutte azioni che richiedono nuovi approcci, nuovi metodi di analisi, nuove pratiche operative.

Non basta essere convinti che il pensiero complesso sia una via necessaria per un mondo iperconnesso. È necessario che il nuovo paradigma complesso dimostri di saper passare dalle intenzioni alla pratica. Questo è il terreno difficile su cui dobbiamo misurarci. Dobbiamo sperimentare con coraggio metodi e tecniche nuovi, che sappiano implementare processi circolari, connettere ciò che è distinto, integrare l’uomo nella natura e il vivente col non-vivente. Lo sviluppo di un nuovo modo di pensare il mondo richiederà la formazione di nuove abilità individuali e collettive. Non sarà una impresa facile. È molto probabile che la torsione cognitiva necessaria sarà dura da realizzare, molto più dura della semplice torsione che ha generato il nastro di Möbius.

Note

1 Clifford A. Pickover, Il nastro di Möbius, Apogeo, 2006, p. xxviii.
2 Edgar Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Milano, Raffaello Cortina Editore, p. 42-43.