La lacerazione è strappo. Sono viscere che si contorcono fino a squarciarsi. Nell’anima restano brandelli, frammenti, stracci di emozioni rese taglienti dal pensiero ricorsivo o dalle incertezze o dalle lusinghe fragili che la vita cangiante riserva agli esseri umani.

Lacerare vuol dire strappare malamente, senza usare strumenti, senza attrezzi, senza lame adatte allo scopo: dallo strappo si generano pezzi o aperture con orli ineguali e discontinui. Ineguali e discontinui, come frattali di esistenze scheggiate dagli eventi.

Alla fine, nell’insieme dei lacerti sparpagliati sul tavolo della vita, non è l’ordine a prevalere ma il caos che con il caso condivide le quattro lettere estratte dal sacchetto sdrucito contenente i suoni e i simboli dell’alfabeto.

In greco antico lakìs, antenato dell’italica lacerazione, era lo squarcio, lo strappo, la spaccatura che fende i tessuti. Di trama e ordito, dopo la lacerazione, restano i cenci, gli stracci, i pezzi di panno senza più consistenza.

In latino l’aggettivo lacer voleva dire sia ‘stracciato’, ‘squarciato’, ‘dilaniato’ sia ‘che straccia’, che ‘dilania’. È insieme oggetto e soggetto perché nella lacerazione tutto si confonde come nella notte hegeliana.

Alla famiglia di lacero, lacerazione e lacerare appartiene anche l’aggettivo lancinante che in genere si associa al dolore provocato da una ferita. Suo progenitore era il verbo latino lancināre che voleva dire sbranare. Lancinante, quindi, che ti sbrana fino a lacerarti le viscere. Lancinante come i denti di un cane affamato che si piantano in quella carne viva e sanguinante che gli umani chiamano anima.

Esistono antidoti per la lacerazione?

Ognuno trova in sé i propri, nelle diverse stagioni della vita. Italo Calvino, scrittore del Novecento, scriveva: “Rispetto alla lacerazione, l’ironia è l’annuncio di una armonia possibile; e rispetto all’armonia è la coscienza della lacerazione reale. L’ironia avverte sempre del rovescio della medaglia”.

Strappare gli sterpi

“Uomini fummo, e or siam fatti sterpi”, sono le anime dei dannati che si trovano nella selva dei suicidi e che parlano con Durante Alighieri detto Dante e con il suo mentore Publio Virgilio Marone. Il poeta strappa un ramoscello dagli alberi. Questo geme, dal legno sgorgano parole di dolore e sangue. Siamo nel secondo girone del settimo cerchio dell’Inferno, dove Dante incontra i suicidi, i violenti contro loro stessi. Si sono trasformati in alberi, in arbusti contorti e nodosi, di colore scuro, senza foglie e irti di spine.

Tra gli uomini-arbusto che dialogano con il nostro amico fiorentino, Pier Della Vigna che per decenni era stato un consigliere alla corte di re Federico II, destinato a far carriera e ad accumulare incarichi di rilievo per la sua bravura. Finché, arrivato quasi all’età della pensione, intorno alla sessantina (era il 1248, nella realtà della storia), viene accusato di tradimento e gettato in prigione, dove Pier si toglie la vita. Dante pensa che le accuse rivoltegli siano calunnie: ispirate dall’invidia che la sua carriera aveva suscitato fra gli altri cortigiani.

In un attimo, al cambiar del vento, dalle stelle alle stalle o, in forma più poetica, lieti onor tornaro in tristi lutti. Tutto cambia, il mondo si rovescia all’improvviso, uno strappo.

Il verbo strappare significa ‘togliere’, ‘portar via con violenza e rapidità’, ‘asportare con forza’, ‘stroncare’. Secondo alcuni studiosi di etimologia la parola strappare deriva dal verbo latino exstirpāre, che voleva dire ‘svellere’, ‘sradicare’ e che è connessa il sostantivo stirps, stirpis che significava ‘ceppo’, ‘radice’ e che in italiano ha generato la parola sterpo.

Ecco quindi la parentela tra quegli sterpi danteschi, insieme uomini e arbusti, e l’atto dello strappare. Lo strappo dello sterpo che Dante compie nella selva dei suicidi genera parole cariche di dolore, che continuano a risuonarci dentro ogni qual volta rileggiamo quei versi così carichi di noi.

Non tutti gli etimologisti però ritengono questa l’origine dello strappo: secondo alcuni la parola deriva dalla lingua germanica. In tedesco straffen vuol dire ‘tirare’, derivato dall’aggettivo straff, che significa ‘teso’, ‘dritto’.

Tormentarsi come in un torchio

Il torchio che strizza gli acini d’uva per produrre il vino o le olive per rendere l’olio: ruota su se stesso e spreme per essere generativo.

Il torto, cioè l’azione ingiusta e non meritata che una persona subisce, che in origine è una cosa sbagliata, storta, sghemba, fatta male.

Il tornante che in montagna ci fa tornare indietro, apparentemente, ma che in realtà ci consente di proseguire, come nella vita che non è mai lineare ma composta di salti, balzi, accelerazioni e frenate, non catalogabile, inclassificabile, non prevedibile, unica e che anche quando sembra portarci all’indietro in realtà ci sta indicando un’occasione per conoscerci meglio.

La tormenta, ovvero la tempesta di mare che fa sobbalzare la navicella del nostro instabile ingegno su onde alte alte alte da generare vertigine.

La torcia, cioè la fiaccola che ci dona la luce di cui abbiamo così tanto bisogno, che è fatta di una corda ritorta e ricoperta di resina o di cera, indispensabile torcitura per far sì che il fuoco la avvampi fino a consumarla dentro.

Ecco, di tutte queste parole, è affine il tormento: di torchio, di torto, di tornante, di tormenta e anche di torcia. Il tormento strizza le viscere fino a renderle dolenti; lo percepiamo come sbagliato, ingiusto, contorcente; ci sembra che ci faccia tornare indietro sui nostri passi compiuti verso la serenità; ci accompagna tra i flutti in tempesta; ci illumina comunque la strada perché anche di questo abbiamo bisogno per poter intravvedere la luce.

Tutti questi lemmi sono collegati al verbo torcere, che significa ‘avvolgere qualcosa su se stesso’ e che deriva dal latino torquēre, che possiamo confrontare con il verbo greco trépō, che voleva dire ‘volgere’, ‘girare’.

Ulisse, l’uomo dalla mente colorata, era definito da Omero polytropos, aggettivo che nasconde la radice di quel verbo trépō: qualcuno ha tradotto con ‘dal multiforme ingegno’ ma quella parola definisce una persona che è in grado di volgere la mente in molte direzioni, un po’ di qua e un po’ di là, talvolta con un sorriso, talvolta in preda a molti tormenti che gli squassano le membra.

Scriveva la filosofa Simone Weil:

La pienezza dell’amore del prossimo è semplicemente l’essere capaci di domandargli: “Qual è il tuo tormento?”

Straziare per ridurre a uno straccio

Anche lo strazio, come il tormento, è sinonimo di dolore e con il tormento condivide il movimento, la torsione, la sensazione di contorcimento insita nello stato d’animo. Tormento, come abbiamo visto, è parente di torcere e di tortura, strazio è affine a stracciare e quindi al gesto di ‘ridurre in brandelli’, ‘lacerare’, ‘strappare’.

Sopraffatti dal dolore, ci sentiamo come uno straccio ridotto a lacerto, come un cencio sdrucito dal tempo. Sia stracciare (da cui straccio) che straziare hanno un antenato in comune, un verbo del latino volgare, distractiāre, forma intensiva del verbo distrahĕre, cioè ‘lacerare’, ‘fare a pezzi’.

Quando siamo doloranti e straziati, andiamo in frantumi, i cocci del nostro io profondo si disperdono a terra, i brandelli di trama e ordito delle nostre esistenze si sfilacciano, non riconosciamo più l’unità del disegno tracciato per noi.

Poco importa se da quel distrahĕre è derivato in italiano anche il verbo distrarre: dallo strazio fatichiamo a distrarci, il pensiero rimane strappato, la ferita dell’animo sanguina di mille ahimè. Lo strazio del resto è tortura, massacro e tormento. Nello straziare ritroviamo lo stracciare, lo strappare gli stracci, il lacerare incessante. Nello strazio, lo straccio.

Dilaniare come in una macelleria

Il macellaio squarta le membra degli animali, prima li abbatte, poi li trucida, poi li massacra a brandelli. Ecco, probabilmente dai suoi gesti, compiuti con coltelli affilati o con attrezzi più rozzi, deriva il nostro verbo dilaniare. Che può essere usato in senso stretto, quando oggetto dell’azione sono le carni, oppure in senso figurato, quando dilaniare vuol dire tormentare crudelmente l’animo, suscitando un senso angoscioso di divisione interiore, provocando grovigli contrastanti di emozioni e di moti.

In latino, lanio era il macellaio, laniena era la macelleria ma indicava anche la chirurgia e la tortura, laniāre era il verbo che rappresentava le azioni compiute in una macelleria: il dilaniare, il lacerare, lo straziare. Da quel verbo così truculento, così duro, così intriso di carne e di sangue, deriva il nostro dilaniarci.

Il prefisso dis- presente nell’italiano dilaniare, in questo caso, non rappresenta una negazione ma anzi ne rafforza l’idea della sofferenza. La macelleria non basta: nel dilaniamento si rafforza la crudeltà.

Ridurre i pensieri a brandelli

La lacerazione riduce a brandelli. Ci spolpa il cuore, lo scarnifica fino a farlo implodere. Lacerare è fare a pezzi.

Il brandello è appunto quel pezzo, quel singolo frammento strappato e lacero che non riusciamo più a ricomporre per produrre l’unità. Il sostantivo brandello è probabilmente affine a brano che vuol dire anche parte di una composizione: un brano di letteratura, un brano musicale. È lontano dalla nostra mente il ricordo dello sbranare quando leggiamo un brano di Cicerone o ascoltiamo un brano dei Måneskin. Eppure, il brano è fratello del brandello. In francese antico, braon voleva dire ‘pezzo di carne’, ‘muscolo’, in occitano bra(z)on significava ‘òmero’, dal francese brado ‘polpaccio’, ‘carne senza grasso né osso’. In tedesco oggi per definire la carne arrostita si dice Braten.

Ecco, i nostri pensieri sbrindellati sono ancora una volta carne, sostanza, materia concreta e viva che diventa sangue.

Il verbo sbranare sta in quell’intorno: vuol dire ridurre in brani, cioè a pezzi. La s- che lo precede ne aumenta la forza, rende lo sbranare più truce, genera brandelli minuscoli che solo le fauci del dolore riescono a produrre.

Le afflizioni che trasformano

A volte arrivano per scuotere le nostre sicurezze, coprono il cielo sopra di noi, generano movimento e quindi ci allontanano dalla risacca. Le afflizioni sono improvvise. È spesso inutile cercare di comprenderne i perché, cioè le cause, le ragioni: arrivano e basta. È più utile indagarne gli affinché, i fini, le evoluzioni che generano in noi.

Ecco, quando ci affliggiamo abbiamo la possibilità di conoscerci meglio, di accogliere l’attraversamento del dolore che passa lasciandoci cambiati.

Affliggere vuol dire ‘dare motivo di fastidio o affanno’, ‘angustiare’, ‘tormentare’. Genitore dell’italiano affliggere era il verbo latino afflīgĕre, che significava ‘abbattere’, da flīgĕre, ‘colpire’ col prefisso ad-. Da quel flīgĕre, a cui si può anteporre la particella con-, deriva il confliggere e il conflitto. Le afflizioni in effetti agiscono spesso come conflitti dentro di noi. Per questa ragione sono sodali con le lacerazioni e con i dilaniamenti: ci strappano dentro e separano i brani delle nostre membra e dei nostri pensieri. A volte bastonano più di altre ma ci trasformano e senza di loro non saremmo quello che siamo.