La danza classica è arte e matematica del movimento, più o meno come la musica classica. Un giorno nella musica irrompe una rivoluzione quella di Arnold Schönberg e la musica diventa dodecafonica e all’orecchio disarmonica, ma in realtà mette in luce una bellezza e profondità che fino a quel momento era rimasta sconosciuta. Come una perla preziosa racchiusa in una conchiglia dall’aspetto non propriamente perfetto. La danza classica è bellezza olimpica immediatamente visibile, la danza contemporanea si scopre nel suo divenire. Per entrambe la tecnica è importante, ma il cuore lo è di più. È questo il senso dal percorso di Carlo Zaja, veneziano, danzatore, coreografo e insegnante e fondatore della Terraglio Danza.

“Il mio viaggio nella danza comincia da lontano - racconta Zaja che da qualche anno porta avanti un lavoro di ricerca nell’ambito della danza e disabilità - è un percorso che nasce dalla mia storia artistica”.

Carlo Zaja deve molto del suo successo come danzatore alla zia Egilda Cecchini, già prima ballerina al Teatro alla Fenice e campionessa italiana di pattinaggio artistico. Cecchini era punto di riferimento in Veneto per lo studio della danza classica con due scuole: una a Mestre e una Padova.

“Comincio a studiare con la zia Egilda che aveva una visione della danza molto aperta per l’epoca. Un approccio d’insegnamento non limitato all'aspetto prettamente estetico e tecnico, ma sul lavoro di comunicazione con il proprio corpo dando spazio alle emozioni e alla maturazione dell’individuo. Il mio vissuto come allievo e figlio d’arte mi ha consentito, sin dall’inizio, di esplorare una modalità diversa di intendere lo studio della danza sia perché maschio sia per un approccio scientifico fuso con le emozioni”.

Una visione che nel tempo è diventata un metodo didattico per i tanti allievi di Carlo Zaja. Tra questi anche Valentina Stefani, allieva di Zaja, che si è diplomata ballerina solista all’Accademia del Teatro dell’Opera di Roma con un anno di anticipo e si rivolge ancora per consigli al suo maestro.

“Parto dall’idea che la danza rappresenta l’essenzialità dell’arte perché racchiude in sé tre dimensioni dell’opera, dello strumento che la esegue e dell’autore. Il ballerino in scena è autore (anche se non ha firmato la coreografia che sta danzando), il suo corpo è lo strumento, l’interprete e l’opera d’arte nello stesso istante. L’essenzialità della danza, il lavoro che precede ogni performance, porta a scavare sul potenziale personale ed emotivo, cioè raccontare quello che si vuol far emergere del proprio intimo, profondo attraverso quello che il proprio corpo può ed è in grado di offrire, raggiungere e di esplorare”.

Eppure, ciò che si può ammirare della raffinatezza della danza classica, dall’esterno, è una sorta di bellezza senza fatica, di grazia quasi naturale. Eppure, dietro ogni singolo gesto c’è impegno, disciplina, fatica, ostinata ricerca, perfezionamento e qualche volta dolore.

“Lo studio della danza classica si basa su una tecnica rigorosa, che codifica i gesti in modo universalmente riconosciuto, ricercando l’assoluta purezza dei movimenti, raggiungendo il raffinamento di gesti che nascono dalla spontaneità”.

Il cambio di paradigma per Zaja arriva all’ultimo anno dell’Accademia di Danza di Roma dove si è diplomato e ha acquisito l’abilitazione all’insegnamento.

“L’ultimo anno di Accademia è stato per me un’agnizione. E così il percorso di abilitazione all’insegnamento che consente di imparare la didattica. Non è detto che un buon ballerino possa essere un buon insegnante perché il ballerino lavora su di sé, parte dalle esigenze del suo corpo. Se diventi insegnante, invece, impari a trasmettere quest’arte. Mia zia mi ripeteva sempre devi lavorare sull’insegnamento per diventare tu stesso un bravo interprete, e aveva ragione”.

Sin da ragazzino Carlo Zaja, seguito con amore e rigore da zia Egilda, ha vissuto l’accademia di danza con esami da privatista. Poi una volta allievo il classico era materia quotidiana e il contemporaneo era affrontato essenzialmente dal punto di vista della tecnica. L’incontro con la danzatrice e coreografa statunitense Marcia Plevin ha segnato un “passaggio dirompente, illuminante” per il giovanissimo Carlo.

“Con Marcia Plevin ho finalmente conosciuto la danza contemporanea, certo avevo studiato la tecnica di Martha Graham. Tuttavia, è stato grazie a Plevin che sono entrato nell’espressività corporea, da ballerino classico, ero talmente ingabbiato nella tecnica che il mio corpo non si sbloccava. Avevo addirittura pensato di mollare, ma la danza stessa mi ha insegnato a non mollare mai e accettare le sfide ed è partito questo percorso di ricerca e di avventura che rappresentava il tassello mancante. Poi proprio a un passo dall’audizione con la compagnia di Maurice Béjart, è mancata zia Egilda e da lì ho accettato la sua consegna e di assumere la gestione e l’insegnamento nelle sue scuole. La tecnica di Béjart l’ispirazione che ruotava attorno al lavoro del grande coreografo, mi ha fatto riscoprire la tecnica classica in una dimensione completamente diversa, più profonda, universale. Nel 1991 a Padova sono stato tra i primi a proporre corsi di classico per adulti. Se si lavora sul proprio corpo nel suo ascolto e sui propri massimali dal punto di vista fisico si può approcciare la danza classica, la tecnica si esprime, l’essenzialità del lavoro della danza classica può consentire di raggiungere livelli estetici raffinati a tutti al di là delle caratteristiche fisiche di ognuno. Anche se non sono quelle dei canoni previsti per i ballerini professionisti dove può essere sublime”.

Ecco arrivati all’oggi e alla danza inclusiva, uno degli aspetti più interessanti del lavoro di Zaja.

“Ho voluto scommettere nell’area della “diversa normalità” come amo chiamare i diversamente abili, non vedere la realtà attraverso un filtro limitante ma in modo diverso, aperto, dove ricercare il proprio massimo lavorando in connessione con se stessi, che si abbiano protesi o si sia su di una carrozzina. Una delle soddisfazioni più belle che ho ricevuto me l’ha data una ragazzina con osteogenesi imperfetta, una fragilità ossea e un’ossatura che non si sviluppa normalmente che può portare a deformità fisiche. Lo spirito di queste persone è straordinario, lei amava la danza, mi chiedeva come potesse essere “bella” danzando, io le ho detto di danzare col cuore. In scena non si è vista la disabilità ma una persona che danzava. Ho avuto conferma di quello che sentivo, quello che immaginavo e mi ha spinto a continuare in questa ricerca. Le persone con “diversa normalità” quando danzano raccontano con ancora più forza quello che hanno dentro, e anche la superficiale leggera disarmonia scompare e viene a sua volta armonizzata dalle emozioni che emergono dal profondo interiore trasformando il corpo in natura espressiva e diventando una grande forza di comunicazione.

Tra i tanti progetti di Carlo Zaja c’è la contaminazione tra arti: danza, pittura, musica, proiezioni, installazioni e una sorta di compagnia dove giovani dai 12 ai 22 anni possano trovare la sintonia col loro copro esprimendo le loro emozioni. È giusto togliere dalla danza l’immagine di un mondo rigido, esclusivo, non è lo chignon che fa la ballerina, ma la sintonia col suo corpo e le sue emozioni. La danza deve essere per tutti”.