C’è un’arma segreta usata dagli autori o dai complici nel corso della strategia della tensione e delle stragi di mafia e terrorismo. Un’arma che ha ritardato per lunghi anni l’individuazione dei veri autori e dei loro mandanti occulti, un’arma usata da chi avrebbe dovuto ricercare la verità e l’ha invece nascosta, depistando, deviando il corso delle indagini. La conseguenza è stata in molti casi la garanzia dell’impunità. Gli esempi sono molteplici e questo articolo farà riferimento ai casi più eclatanti.

Gli attentati del 1969: Nel corso del 1969 furono commessi in Italia ben 145 attentati dinamitardi (di cui 96 sicuramente attribuiti all’estrema destra) in luoghi diversi: tra i principali quello del 15 aprile quando una bomba distrusse lo studio del rettore dell’Università di Padova Enrico Opocher; il 25 aprile fu poi colpita la Fiera di Milano e l’ufficio cambi della Banca Nazionale delle Comunicazioni che aveva sede nell’atrio della Stazione Centrale; in questo stesso giorno, a Brescia, venne devastata la sede Anpi, fatta saltare la lapide dedicata ai partigiani in piazza della Loggia e furono aggrediti ex-partigiani. Nella notte tra l’8 e il 9 agosto 1969 vennero collocati dieci ordigni su altrettanti convogli ferroviari, dei quali otto esplosero ferendo dodici passeggeri. Secondo una ricerca presentata dalla Giunta regionale lombarda in quella regione nel 1969 vi furono 400 episodi di violenza di matrice neofascista, quindi uno ogni due giorni.

Le indagini in tutti i casi sopra elencati si diressero immediatamente nei confronti degli anarchici milanesi; gli elementi di prova si fondarono al tempo sulle dichiarazioni di confidenti della Squadra Mobile della Questura di Milano. Il processo che ne seguì a carico di un gruppo di anarchici e di noti personaggi della sinistra, come i coniugi Feltrinelli, si concluse nel 1973, con l’assoluzione degli imputati sia dal reato di associazione a delinquere che dall’attentato del 25 aprile. Molti di loro avevano subito due anni di carcerazione preventiva pur essendo innocenti. Solo dopo anni, in uno dei tanti processi a carico degli stragisti Franco Freda e Giovanni Ventura venne riconosciuta la loro responsabilità con conseguente condanna sia per l’attentato del 25 aprile che degli attentati ai treni compiuti nella notte tra l’8 e il 9 agosto dello stesso anno (l’unica condanna pronunciata in via definitiva a loro carico).

Il depistaggio di cui sopra era preparatorio di quello che sarebbe stato operato nelle indagini seguite alla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre del 1969. Ne furono responsabili esponenti istituzionali di alto livello, come il prefetto di Milano Libero Mazza. Egli, alle ore 22, inviò un telegramma al presidente del Consiglio dei Ministri Mariano Rumor, comunicando che: “Ipotesi attendibile che deve formularsi indirizza indagini verso gruppi anarcoidi aut comunque frange estremiste.” La pista anarchica era stata dunque “indirizzata” sulla base di “ipotesi”, dunque in assenza di alcun elemento di prova. Portò all’individuazione dell’autore in Pietro Valpreda, ovviamente anarchico, che dopo anni di custodia cautelare, venne assolto. Il depistaggio in questo caso venne rafforzato attraverso la falsa testimonianza del tassista Rolandi, mediante un riconoscimento fotografico illegale.

Altro depistaggio avvenne in occasione della strage di Gioia Tauro. Il 22 luglio del 1970, nel pieno della rivolta di Reggio Calabria, alcuni vagoni del treno Freccia del Sud, partito da Siracusa e diretto a Lourdes per un pellegrinaggio religioso, poco prima di arrivare alla stazione di Gioia Tauro (RC), deragliarono, provocando la morte di sei persone e il ferimento di altre sessantasei. Immediatamente, la polizia ferroviaria e la Procura di Palmi individuarono i responsabili in alcuni ferrovieri per un errore colposo nella manovra di scambio dei binari, e solo dopo le perizie disposte dalle Ferrovie dello Stato si accertò che il deragliamento era stato determinato da un ordigno esplosivo posto sui binari. I ferrovieri furono assolti di conseguenza ma nessuno pensò di approfondire le indagini in direzione degli esponenti della destra eversiva operanti nella rivolta, Solo negli anni Novanta, nel corso delle indagini condotte dalla DNA con l’operazione Olimpia, i collaboratori di giustizia contribuirono a fare luce sul caso con la individuazione dei due autori materiali dell’attentato, nel frattempo deceduti.

Altro grave episodio di depistaggio fu quello operato dopo l’attentato di Peteano, provincia di Gorizia, del 31 maggio del 1972, quando una telefonata anonima comunica ai Carabinieri del capoluogo del ritrovamento di un’autovettura con tre fori di proiettile sulla carrozzeria. Giunti del posto, il capitano che guidava la pattuglia tentò di aprire il cofano provocando una forte esplosione che provocò la morte di tre militari e il ferimento grave di altri due. La prima pista imboccata dal Comando dei Carabinieri fu, ovviamente, quella “rossa”, rivelatasi presto inconsistente, seguita dalla pista “gialla”, della criminalità comune, anch’essa rivelatasi infondata, ma solo a seguito di un processo a carico dei presunti autori, concluso con la loro assoluzione con formula piena. Solo, grazie alla confessione di uno degli autori, tra i quali Vincenzo Vinciguerra, si accerterà, senza ombra di dubbio la riconducibilità della strage a due esponenti di Ordine Nuovo friulano.

In occasione della strage di Piazza della Loggia a Brescia, vari furono i tentativi di depistaggio. È il 28 maggio del 1974. Nel corso di una manifestazione cui partecipano esponenti politici, sindacali, per protesta contro gli attentati dinamitardi avvenuti in città nei mesi precedenti di chiara marca fascista. Il primo, immediato, avviene appena due ore dopo la strage. Un’autopompa dei Vigili del Fuoco arriva in piazza e mette in azione gli idranti. Lavano il selciato e spazzano via i calcinacci, ma anche schegge, brandelli di vestiti, brandelli umani, sangue. L’iniziativa fu presa dal vicequestore vicario Aniello Diamare, responsabile dell’ordine pubblico per la manifestazione di quella giornata. Quel lavaggio venne definito da Manlio Milani, presidente dell’associazione dei parenti delle vittime della strage, “la prima congiura contro la verità”.

Nessuna particolare attenzione venne predisposta dai responsabili dell’ordine pubblico, eppure non mancavano seri segnali di pericolo sempre ad opera di esponenti dell’estrema destra. Il 16 febbraio era esplosa una bomba davanti alla Coop di Porta Venezia, rivendicata dalle SAM con un volantino dal contenuto apertamente minaccioso: “Viva Dachau, bisogna passare dalle parole ai fatti”. L’8 marzo scoppia una bomba a mano nella sede del PSI in via Torrelunga, il 1° maggio nell’ingresso della CIRL viene trovata una borsa contenente otto candelotti di dinamite e 300 grammi di tritolo già innescati, e ancora l’episodio più grave: un giovane neo fascista salta in aria per lo scoppio di una bomba che trasportava a bordo della sua Vespa. I segnali, dunque, non mancavano né di numero, né di pericolosità, ma nessun controllo venne effettuato, eppure l’esplosivo usato per la strage era stato collocato dentro un cestino metallico portarifiuti, che sarebbe dovuto essere il contenitore da controllare per primo…

Sempre con riferimento a quella strage va ricordato il ruolo di Francesco Delfino, all’epoca comandante del Nucleo Investigativo Carabinieri della città, rinviato a giudizio il 18 maggio per concorso in strage assieme a Delfo Zorzi, Maurizio Tramonte, Carlo Maria Maggi, Pino Rauti e Giovanni Maifredi. Il processo ha avuto inizio il 25 novembre 2008. Con sentenza emessa il 14 aprile 2012, a conferma della sentenza di primo grado, la Corte d'Assise d'Appello di Brescia ha assolto - ai sensi dell'art. 530, comma 2 Cpp - Francesco Delfino per non aver commesso il fatto. Proprio le iniziative investigative di Delfino e quelle del giudice istruttore Arcai inseguirono piste improbabili, prive di sbocco. Alla fine, anche grazie agli apporti collaborativi, dopo ben quattro istruttorie, si pervenne alla condanna di due imputati Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, fonte “Tritone” dei Servizi segreti, quale mandante il primo e quale organizzatore il secondo della strage. Entrambi appartenevano all’organizzazione eversiva di estrema destra Ordine Nuovo. Rimasero ignoti e impuniti gli esecutori. Sicura attività di depistaggio fu quella del Delfino quando concentrò la sua attenzione sul bresciano Ermanno Buzzi, ucciso il 13 aprile 1981, quando venne strangolato nel carcere di Novara da Mario Tuti e Pierluigi Concutelli, due personaggi di spicco dell’eversione nera. “Era un delatore, un confidente dei carabinieri.” Sostenne Tuti.

Infine, il depistaggio più clamoroso fu quello relativo alla strage di via D’Amelio. Non a caso venne definito dalla sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”. Ne fu strumento tale Vincenzo Scarantino, il quale venne indotto e indottrinato da funzionari della polizia di stato, guidati da Vincenzo La Barbera a formulare accuse nei confronti di soggetti che dopo dieci anni di detenzione vennero riconosciuti innocenti. Il fine fu quello di depistare le indagini al fine di favorire Cosa Nostra. La conseguenza fu devastante sul piano giudiziario tanto che furono necessari ben quattro processi per pervenire all’accertamento della verità processuale (denominati uno, bis, ter e quater), conclusi in via definitiva dalla Corte di Cassazione, quinta sezione penale, del 5 ottobre 2021, che confermava la sentenza della Corte d’Appello di Caltanissetta.

Durante la requisitoria il P.G. d’udienza, aveva ribadito che: "Secondo la procura generale lo sviluppo delle indagini sta via via delineando altre strade che, se doverosamente riscontrate, possono far individuare altri soggetti che hanno potuto contribuire alle stragi". E poi aggiungeva: "I magistrati devono continuare a raccogliere prove certe di responsabilità penali che consentano di addivenire a sentenze definitive di condanna per tutti coloro, anche in ipotesi, esterni a Cosa nostra, che possono avere concorso, a qualunque titolo, e per qualsivoglia scopo, alla realizzazione della strage di via D'Amelio e che, successivamente ai tragici eventi, possono avere mosso i fili, in maniera da determinare il colossale depistaggio delle relative indagini”.

Il legislatore, sia pure con ritardo, comprese come l’attività di depistaggio non potesse restare impunita, in quanto potenzialmente idonea a impedire l’accertamento della verità, inquinare le indagini, favorire autori e mandanti, con particolare riferimento ai reati di particolare gravità. A tal fine l’art. 1, comma 1, la legge 11 luglio 2016, n. 133, all’art. 1, sostituì il testo dell’art. 375 del Codice Penale, introducendo il reato di depistaggio. Il primo comma del nuovo testo prevedeva l’ipotesi in cui, salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da tre a otto anni il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, al fine di impedire, ostacolare o sviare un'indagine o un processo penale:

  • immuta artificiosamente il corpo del reato, ovvero lo stato dei luoghi, delle cose o delle persone connessi al reato;
  • richiesto dall'autorità giudiziaria o dalla polizia giudiziaria di fornire informazioni in un procedimento penale, afferma il falso o nega il vero, ovvero tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti sui quali viene sentito.

Le pene venivano aggravate quando il reato era commesso in relazione a procedimenti concernenti delitti di particolare gravità in tema di associazione di tipo mafioso, terrorismo, traffico di armi e tutti i reati di competenza delle Direzioni Distrettuali Antimafia.