Non ho la minima voglia di sollevare discussioni inutili, soprattutto su un argomento come questo. Il progresso scientifico è importantissimo e ha risolto molti problemi dell’uomo, soprattutto nell’ambito medico con l’avvento dei robot chirurgici e nel contesto dell’intelligenza artificiale applicata alla meccanica industriale, a quella spaziale e militare o ad altri campi. I settori in cui è stata applicata, e ancora si applica, la tecnologia informatica sono quindi moltissimi. Ma da qui a sostenere che il pensiero animale e anche quello umano possano essere sostituiti da microchip installati nel cervello è un’altra cosa. È un’esagerazione alla quale purtroppo l’uomo ama credere per un’infinità di ragioni. La prima è che noi vogliamo credere che tutti i nostri problemi un giorno possano essere risolti dall’intelligenza artificiale, ma questa è solo un’illusione, una vanità, e dobbiamo fare molta attenzione a non cadere in questa trappola. Solo la fantascienza ha immaginato delle risposte in questo senso, ma il punto è che la fantascienza, come suggerisce il significato stesso di questa parola, non è scienza.

Non è certamente come vuole farci credere uno degli uomini più ricchi al mondo, l’intraprendente Elon Musk, il quale sostiene con convinzione che un giorno sarà possibile uniformare il cervello a una macchina artificiale, cioè a un computer, interfacciabile addirittura a uno smartphone che, come sappiamo, oggi è lo strumento comunicativo più diffuso al mondo. In questa idea c’è una contraddizione di fondo che mi lascia molto perplesso. Musk sostiene che uniformare le menti umane e animali a delle macchine elettroniche è importante ai fini di evitare che l’uomo un giorno venga superato dalle macchine stesse. Se per Musk esiste questo problema, allora perché avventurarsi con milioni di dollari di investimenti in questa tecnologia che potrebbe mettere in pericolo la nostra autonomia e il nostro pensiero libero? Qui, c’è qualcosa che non quadra. È vero, in questi ultimi anni sono stati fatti dei progressi enormi nell’ambito delle applicazioni tecnologiche in medicina, ma queste sono tutte implementazioni tecnologiche del nostro pensiero su macchine che abbiamo costruito con le nostre mani e non attraverso poteri superiori, macchine che quindi è difficile che possano prendere il sopravvento su di noi. Questo vuol dire che la tecnologia, nonostante tutti i suoi progressi, non potrà mai sostituire il pensiero dell’uomo. Basta staccare la spina a queste macchine per averne la prova. È pura illusione credere che la soggettività ontologica del nostro pensiero possa essere sostituita da un pensiero artificiale perché le macchine non pensano, al contrario di quanto molti dicono e sostengono di credere.

Come nasce l’equivoco?

L’equivoco nasce dal fatto che alcuni scienziati hanno impiantato nella testa di un povero macaco dei chip che ne rilevavano l’attività cerebrale durante lo svolgimento del gioco del ping pong, che inizialmente svolgeva non con le mani, come comunemente facciamo tutti noi quando giochiamo a questo gioco, successivamente con il pensiero. Nel laboratorio, chiamato non a caso “Neuralink”, finanziato da Elon Musk, sono state fatte queste prove chiamate “la forza del pensiero”, in cui più di mille elettrodi hanno rilevato le attività neurali che venivano attivate quando l’animale entrava in azione di fronte a uno schermo su cui una pallina da ping pong rimbalzava da una sponda all’altra e che doveva essere respinta con il pensiero da due palette mobili poste ai lati dello schermo (per i dettagli vedere l’articolo di Alessandro Vinci). L’idea è che un giorno, per esempio, una persona tetraplegica possa utilizzare uno smartphone solo con il pensiero e non più con le dita che non è più in grado di usare. Non dico che un giorno questo non possa accadere (nella scimmia in questione l’esperimento ha di fatto funzionato). Sostengo anzi la bontà di queste tecnologie, ma, da qui a pensare che il nostro pensiero nella sua totalità possa essere sostituito da una macchina di questo genere, ce ne corre. Il malinteso su cui spesso non riflettiamo, è che la velocità con cui queste possibilità entusiasticamente sollevano nell’uomo e per chi sa utilizzare molto bene uno smartphone all’ultimo grido, non va di pari passo con la nostra conoscenza tecnologica, anche minima, di come sia fatto uno smartphone al suo interno. Se lo sapesse e non avesse un interesse particolare, per esempio economico, per commercializzarlo, a diffondere questi usi spropositati della tecnologia informatica, sarebbe meno entusiasta.

Gli scimpanzé ci avevano già insegnato qualcosa

Diversi decenni fa nel Primate Research Institute dell’Università di Kyoto, in Giappone, alcuni scimpanzé sono stati sottoposti a prove di abilità matematica, senza l’aiuto di microchip installati nel cervello, che diedero dei risultati sorprendenti. I test dimostrarono che gli scimpanzé avevano competenze numeriche, senza essere certamente consapevoli di queste loro altissime capacità, ma coscienti del fatto che se eseguivano questi compiti correttamente ricevevano un premio, una nocciolina, di cui sono molto ghiotti, altrimenti rimanevano a bocca asciutta. Un altro fatto straordinario fu che lo sperimentatore giapponese Tetsuro Matsuzawa (2009) vide che la velocità con la quale gli scimpanzé seguivano correttamente una serie di numeri in progressione aritmetica, ad esempio, da uno a dieci, era molto più alta di quella di un uomo sottoposto alle stesse prove. Quando dallo schermo sparivano i numeri che all’inizio erano presenti dentro al alcuni quadratini i quali comunque continuavano a rimanere visibili, gli scimpanzé riuscivano a seguire senza problemi lo stesso ordine aritmetico dei numeri che prima comparivano al loro interno, dimostrando che, oltre ad avere una certa competenza numerica, erano anche dotati di una memoria straordinaria. Sottoposti allo stesso test, gli uomini superano facilmente la prima prova, cioè quella aritmetica, anche se molto più lentamente dello scimpanzé, ma nel secondo caso sbagliano il test quasi sempre. Straordinario, ma vero!

Cosa c’entra tutto questo con i microchip installati presso il laboratorio di Neuralink in un macaco di cui abbiamo parlato sopra? La risposta è che il pensiero animale o umano che sia non ha bisogno di un supporto informatico per manifestarsi, anche quando non può, o è impedito dal proprio corpo, in questo caso dall’uso delle dita, toccare in successione aritmetica dei numeri distribuiti a caso su uno schermo. Vuol dire che la tecnologia può diventare utile solo nel caso in cui esista un problema che impedisce fisicamente l’uso di una parte del nostro corpo o di quello di un animale, in questo caso di una scimmia, ma non del loro e del nostro pensiero. L’idea quindi che una macchina possa sostituire il pensiero dell’uomo è sbagliata e non potrà mai essere praticata, se non molto parzialmente. La macchina serve solo per fare fisicamente ciò che noi non possiamo fare, ma che è pur sempre nella nostra mente. Quando un uomo, o un animale, si serve di un canale wireless tra un computer e dei chip istallati nel cervello, come nel caso del macaco, sopravvaluta lo sfruttamento di questa tecnica, sposta il problema ma non lo risolve perché è irrisolvibile. Non potrà mai accadere, perché il pensiero, così come la coscienza, sono proprietà che emergono dalle attività corticali che sono più complesse di qualsiasi computer già costruito o ancora da costruire. Quando l’uomo fabbricherà un computer capace di sostituirsi al nostro pensiero (cioè mai), allora si potrà ipoteticamente pensare che il progetto di Elon Musk avrà un futuro.

Conclusioni

In conclusione ho dei dubbi sulla possibilità che un giorno si possa creare un computer o un robot capace di sostituirsi totalmente all’uomo. C’è però un particolare robot chiamato Ameca che la società di robotica Engineered Arts di Londra definisce l’umanoide più sofisticato che sia mai stato costruito e che ha sollevato molti entusiasmi nei media e soprattutto da parte di chi lo ha assemblato. Che sia un robot molto sofisticato nessuno lo nega. Però i tecnici che l’hanno realizzato dicono che manifesti anche delle capacità inaspettate e addirittura non contemplate, cioè che reagisca emotivamente quando viene invaso il suo spazio personale, come farebbe qualsiasi essere vivente. Dunque, a questo robot sarebbe stato implementato uno stato psicologico emozionale tipicamente umano o animale che sia? La risposta è certamente no. Chi ha implementato in questa macchina-robot un soft certamente molto complesso non prevedeva che di fronte a un avvicinamento di qualcuno esso reagisse negativamente, come di fatti è stato dimostrato. In questo caso il robot non prende nessuna iniziativa di sua spontanea volontà o intenzionalmente. In realtà nel robot ci sono dei sensori, e non solo in Ameca, che scatenano risposte meccaniche di questo genere; questo è normale, niente di eccezionale. Ad Ameca però non passa in testa niente se non informazioni tramite chip elettronici installati al suo interno. Ameca non ha un pensiero autonomo come il nostro, che è un prodotto causale del nostro cervello fatto di materiale biologico, non di silicio, tra l’altro molto più complesso di qualsiasi robot che sia stato costruito sino a ora. In ultimo, le neurotecnologie che sfruttano interfacce macchina-cervello, ad esempio, per far comunicare con i medici individui totalmente paralizzati e quindi per individuare il loro stato di coscienza, già esistono. Un robot non potrà mai sostituirsi interamente allo stato ontologicamente soggettivo della coscienza di questi pazienti. Se un giorno dovesse, ipoteticamente, essere costruito, perderemmo la nostra libertà, diventeremmo come degli zombi. O lo siamo già?

Bibliografia

Stanislas Dehaene. Consciousness and the Brain: Deciphering how the brain codes our thoughts. New York, Viking Press (tr. it. Coscienza e cervello. Come i neuroni codificano il pensiero. Milano, Cortina Raffaello Editore, 2014).
Tetsuro Mazuzawa. 2009. Symbolic representation of number in chimpanzees. Current Opinion in Neurobiology, 19(1): 92-98.
Christof Koch. Il cervello elettrico. Le Scienze, Settembre 2021, pp.: 47-51.