Il latino era una lingua precisa e meticolosa. Alcune parole erano declinate solo al plurale. Ai tempi della scuola media di noi ultrasettantenni di oggi, insegnanti un po’ frettolosi e sbrigativi ci dicevano che si trattava di parole che “facevano eccezione”; le definivano difettive di singolare e qualcuno azzardava: “Pluralia tantum!” Evitavano di spiegarci, però, che non si trattava di bizzarrie della lingua, ma del rispetto delle caratteristiche peculiari di alcuni sostantivi. Incunabula, le fasce con le quali si avvolgeva il neonato, divitiae, le ricchezze, e tenebrae, le tenebre, non potevano che essere sostantivi solo plurali, rappresentando non una cosa, ma un insieme di cose. Accade anche oggi al nostro italiano: le nozze non hanno un corrispondente singolare, la nozza.

Non si sottraevano a questa logica i nomi di alcune città, come Atene, che essendo composta di vari nuclei - il Pireo, l’Agorà, il Ceramico, l’Acropoli - era nome plurale: Athenae. Così, analogamente, Siracusae e Thebae.

Se oggi usassimo ancora il latino, Napoli, conformemente a queste regole, sarebbe diventata Le Napoli. Perché la fisionomia della città, dopo la sua fondazione, è mutata divenendo doppia, fatta di due parti conviventi: una luminosa e solare, una buia e tenebrosa, una superiore l’altra inferiore; poste, fisicamente, l’una sull’altra.

Tantissimi scrittori hanno ripetuto, a volte fino alla noia, che Napoli è stata una città tutta tufacea; e il tufo con il quale è stata costruita è stato estratto dal suo stesso corpo, dalle sue viscere. Un urbanista potrebbe dire che Napoli è nata da un’estroflessione del suo sottosuolo. Un sottosuolo svuotato e diventato presto cariato e cavo, ramificato in un reticolo di gallerie, di camminamenti, di antri, di canali occupati da sistemi di servizio di distribuzione delle acque e fognario, destinati a vie di comunicazione, passaggi segreti, a luoghi di culto dei morti, di religioni, di miti misteriosi e, durante la guerra, a rifugi antiaerei.

Gli antichi Romani, da quegli esperti ingegneri che erano, utilizzarono questa caratteristica della morfologia del suolo napoletano creando, per motivi di strategia militare e di speditezza commerciale, percorsi sotterranei. Tre dei quali diventati famosissimi siti archeologici. La galleria tra Cuma e la sponda occidentale del Lago D’Averno, anticamera degli Inferi; la grotta di Seiano tra l’attuale zona di Bagnoli e il vallone della Gajola, meravigliosa conca marina: e la Crypta Neapolitana, detta anche Grotta di Posillipo, tra la zona Est della città e quella occidentale verso i rigogliosi Campi Flegrei.

L’ingegnere che progettò quest’ultima, Lucio Cocceio Aucto, probabilmente non immaginò che il suo ardimentoso traforo inaugurasse una vera e propria tradizione del trasporto napoletano. I napoletani hanno ereditato dagli antichi ingegneri romani la capacità di accelerare i tempi di percorrenza in una città stretta e lunga come Napoli, serrata tra le colline e il mare, col sistema dei trafori. Ne esistono a Napoli tre, utilizzatissimi e trafficatissimi. Ed è grazie anche a questi che di Napoli scrisse, una quarantina d’anni fa, Domenico Rea: “Come che sia ci trasportiamo”. Frase che diede titolo ad un opuscolo oggi introvabile.

Ma la fama del grande ingegnere romano fu oscurata dalla leggenda. La sua galleria fu attribuita alle capacità di Virgilio, più mago che poeta, che l’avrebbe realizzata in una sola notte con l’aiuto di un imprecisato numero di demoni. Possibile che i napoletani davvero pensassero alle magie fatte da Virgilio? Perché no? Che c’era di male a credere contemporaneamente alla perizia di un tecnico e alla magia di un poeta?

Così questa città è doppia non solo per la sua costituzione fisica, ma anche per la capacità dei suoi abitanti di accettare che ogni fenomeno e ogni idea possano serenamente convivere col proprio doppio, se non addirittura col proprio contrario. Perciò a Napoli non sembra far eccessiva meraviglia che al poeta mantovano siano dedicati due parchi, distanti tra loro, che, a parte la differenza di una sola vocale, abbiano lo stesso nome: il Parco Virgiliano e il Parco Vergiliano.

Della sirena Partenope, fondatrice della città, si crede che fosse stata un essere mitico metà donna metà uccello, come tramandato dalla mitologia greca, senza escludere del tutto la possibilità che possa essere stata anche una donna per metà pesce. E così convivono pacificamente, tra gli oggetti di culto e di orgoglio, la Fontana delle Zizze, nel cuore del centro storico, con una sirena che è un inequivocabile donna-uccello, e la ottocentesca sirena di una grande fontana della zona di Mergellina, che ha lo stesso corpo della famosa sirenetta di Copenaghen.

La stessa sorte è capitata alle strade. Non crea disagio o difficoltà che una strada abbia tre nomi. Uno, quello ufficiale: Via Girardi. L’altro, derivato dalla presenza storica di un famoso Ospedale Militare, che non c’è più. Il terzo, della tradizione popolare: salita di Magnacavallo, con evidente riferimento, data la ripidezza, alla fatica dei cavalli di scalarla. Ogni buon tassista napoletano conosce bene tutti e tre i nomi.

E nessuno sembra stupirsi del fatto che spesso monumenti di uomini illustri si trovino in luoghi dedicati ad altri non meno famosi personaggi. Salvator Rosa è a piazza Francesco Muzii; Armando Diaz a via Francesco Caracciolo; Matteo Renato Imbriani a piazza Giuseppe Mazzini, il cui busto è all’inizio di via Vittorio Emanuele III. Così se diversi turisti chiedono informazioni per andare a Palazzo Fuga, o all’Ospedale dei Poveri, o al Serraglio, o al Reclusorio, tutti i passanti partenopei interpellati sanno bene che si tratta del medesimo palazzo. Analogamente strade e piazze cui è stato mutato il nome, mantengono, nell’uso comune, sia il vecchio che il nuovo: piazza della Repubblica/piazza Principe di Napoli; viale Gramsci/viale Regina Elena; piazza Trieste e Trento/piazza San Ferdinando. Si tratta di convivenze toponomastiche pacifiche e serene.

Sulla Collina di Pizzofalcone due lunghe strade corrono parallele in salita verso la sommità di Monte Echia. L’una signorile, silenziosa, connotata dai colori grigi e bianchi degli intonaci dei fabbricati che la fiancheggiano: Via Monte di Dio. L’altra popolare e chiassosa, caratterizzata dai colori gialli e tufacei delle case che vi si affacciano: Via Egiziaca. La prima adiacente al Calascione, residenziale e benestante, l’altra vicinissima al Pallonetto, popolarissimo e popolatissimo. C’è un grande palazzo nobiliare tra le due strade, con due ingressi. L’uno, il principale, su Via Egiziaca, sempre chiuso; l’altro, quello in origine di servizio, su Via Monte di Dio, sempre aperto. Nel palazzo ha sede un glorioso Istituto di Studi Filosofici. Il suo leggendario fondatore sosteneva di voler tener chiuso l’ingresso principale, rivolto in direzione del Palazzo Reale, per protesta contro la repressione borbonica della Repubblica Partenopea del 1799. E tutti, a suo tempo, hanno apprezzato e condiviso. Ma qualcuno, con un pizzico di malizia, ha sospettato che il gesto di sdegno storico servisse anche a inibire l’accesso al palazzo dalla zona più popolare e vivace.

Le due strade, vicinissime e diversissime, convivono pacificamente, come pacificamente convivono a Napoli contraddizioni che in altre città innescherebbero collisioni.

Città dunque, doppia, se non tripla, se non addirittura multipla, dotata di carattere e di indole che sembrano sfuggire a definizioni stabili, nonostante gli sforzi degli storici e dei sociologi. Ed è per questo che, se usassimo ancora una lingua disciplinatissima e matematica come il latino, il nome non potrebbe che essere: Le Napoli.