Sono un appassionato di cibo, dei riti che vi svolgono attorno, degli strumenti per lavorarlo, degli oggetti connessi al cibo.

Sono curioso di sapori nuovi, siano essi provenienti da Paesi e culture lontane siano essi il frutto della creatività dello chef, ma anche relitti misconosciuti di un passato sano e genuino oggi relegato nelle galere del sanificato, sterilizzato ed abbattuto, anallergico, privo di glutine, ipocalorico, ricco di fibre ma soprattutto che non abbia a contenere olio di palma.

Sono nato e cresciuto a Lerici, mangiando pesce almeno una volta al giorno. Pesce fresco, pesce vivo, pesce nobile di un mare pulito. Come la maggior parte dei miei amici, ho pescato polpi con le mani e pesciolini con la fiocina, ho raccolto tartufi, mangiato ricci di mare accovacciato su uno scoglio con papà che li raccoglieva dal mare e la mamma che li apriva. E li apriva con una robusta forbice da elettricista dalle lame poco affilate e assai più ossidate. Ho mangiato i datteri strappati con mazzetta e punteruolo dagli scogli nelle quantità necessarie per una zuppetta o una spaghettata, quando la raccolta era libera e non era ancora cominciata la devastazione delle scogliere.

Ho mangiato i muscoli in barca mentre li pulivo per preparare le esche per pescare qualche pesciolino al bolentino con papà, le acciughe all’ammiraglia, fresche e profumate, cotte col solo succo di limone, tanto fresche che non serviva nemmeno il sale. E ho tolto le patelle dagli scogli per mangiarle dove si trovavano. La maggior parte di queste attività culinarie richiedevano e richiedono ancora l’uso di un coltello, e così sin da bambino sono abituato a possederne, ad utilizzarne, a regalarne.

Ed ecco il vero argomento di queste riflessioni, il coltello, amato, odiato, maltrattato, usato fuori contesto, quale che ne sia il contesto ma ci limiteremo al rapporto cibo e coltello.

Da osservatore silente e curioso ho visto ristoranti prestigiosissimi fornire ai clienti coltelli da tavola utili al massimo come fermacarte, affilati nemmeno quanto sarebbe richiesto ad un tagliacarte, ho visto tagliare sontuose bistecche con lame seghettate, una violenza inaudita sulla carne, ho parlato con chef che usavano nobili e raffinate lame giapponesi per spiccare una forma di pecorino stagionato, danneggiandole irreparabilmente e ordinandone di nuove per il medesimo utilizzo.

Ho visto rompere lame delicate che tentavano di aggredire un’inoffensiva crosta di Parmigiano Reggiano.

Ma ho visto anche un genio folle con occhi magici e spiritati, in maglietta e capelli spettinati, sfilettare un rombo con pochi movimenti sicuri, mentre sognava nuovi piatti e già ne progettava la realizzazione, col pensiero che nulla andasse sprecato e che il cibo dovesse essere a disposizione di ogni essere umano. E ho visto tradotti sogni in realtà.

Ma ciò che mi ha sempre affascinato è il rito.

Il rito non è altro che il piacere del gesto ancora prima che del suo significato. Tagliare una sottilissima fetta di jamon iberico, una spessa fetta di guanciale per una ricca carbonara, sbucciare un frutto senza schiacciarlo o danneggiarlo. E ancora sfilettare un pesce fresco o trarre i profumi che sprigionano da un trito di erbe odorose, mentre una lama sottilissima danneggia il minor numero di celle possibile in modo da limitare il processo di ossidazione della verdura.

Questo è il coltello, il primo punto di contatto artificiale tra l’uomo e il cibo.

Il momento del taglio che, secondo solo al morso, è il punto di ingresso per scoprire la consistenza, il primo profumo, il sapore originale del cibo che poi verrà trasformato.

Questo oggetto realizzato con acciaio, leghe di acciai, leghe di altri metalli, affilato e sicuro, è indispensabile per la cucina, che arriva persino a tollerarne l’uso improprio, con conseguente pregiudizio per cibo ovviamente, ma che contemporaneamente perdona molto.

Manca una diffusa cultura del coltello, c’è chi lo vede inoffensivo strumento di lavoro, chi per piacevoli preparazioni, chi come arma, chi lo teme senza conoscerlo, al punto da lamentarne l’eccessiva affilatura, considerandola erroneamente pericolosa in se stessa.

È un vero peccato, io lo vedo come il bulino nelle mani di un cesellatore ed ho avuto l’occasione di vederne usare, con perizia, da alcuni grandi chef, nelle cui mani martoriate da schizzi di grassi e bruciature di griglie e padelle, ho inteso scorgere il tratto di un Benvenuto Cellini della cucina.

When a man picks up a knife, there's an old memory from the collective unconscious that surfaces. A knife is an atavistic experience. It was man's first tool and weapon. Man was chipping flint into cutting edges before he invented the wheel. No matter how sophisticated we become, a knife takes us back to the cave.
Quando un uomo prende un coltello, c'è un vecchio ricordo dell'inconscio collettivo che emerge. Un coltello è un'esperienza atavica. Era il primo strumento e arma dell'uomo. L'uomo stava scheggiando la selce nei taglienti prima di inventare la ruota. Non importa quanto diventiamo sofisticati, un coltello ci riporta nella grotto.

(Bob Loveless)