Per oltre mezzo secolo, l’Europa ha vissuto in pace, senza più conoscere la guerra sul proprio territorio. Dopo i due orrori delle guerre mondiali, due enormi carneficine a distanza ravvicinata l’una dall’altra, con le quali forse non abbiamo mai fatto i conti fino in fondo, se ne avvertiva una insopprimibile esigenza. Furono però decenni di ‘guerra fredda’, non di vera e propria pace. Certo, non si registrarono bombardamenti e combattimenti di carri, ma il clima di guerra si percepiva. E non solo nell’aria. I moti d’Ungheria del ‘56, repressi nel sangue dall’Armata Rossa, l’invasione della Cecoslovacchia nel ‘68, il Muro di Berlino, le rivolte operaie in Polonia... E, specularmente, il golpe dei colonnelli greci nel ‘67, la stagione dello stragismo, ‘stay-behind’...

Il prezzo di quella pace fu la divisione dell’Europa, due pezzi di continente divisi da una ‘cortina di ferro’, costretti a guardarsi l’un l’altro senza potersi incontrare, senza potersi aiutare. Perchè il prezzo di quella pace era la soggezione a due superpotenze, che si erano accordate tra loro per spartirsela, l’Europa.

È quando una delle due superpotenze collassa, e crolla su se stessa, che finalmente quelle due metà d’Europa possono tornare ad incontrarsi, possono tornare ad essere una sola. Purtroppo, perdemmo quella storica occasione per tornare ad essere non solo una, ma anche libera.

Il crollo di una delle due potenze che dominavano l’Europa, fu visto dall’altra come l’opportunità di estendere all’intero continente il proprio dominio. E noi accettammo supinamente.

Gli europei si illusero allora che la fine della ‘guerra fredda’ significasse l’apertura di una ancor più lunga stagione di pace, gli Stati Uniti si illusero che la fine del mondo bipolare aprisse un’era americana, unipolare, che sanciva definitivamente il proprio sogno di realizzare la presunta ‘mission’ egemonica dell’America.

Furono entrambe illusioni pericolose, perchè invece quel mezzo secolo di guerra fredda era stato un castello di carte, che si reggeva appunto sulla spinta reciproca e contrapposta. Caduta una carta, cadeva il castello.

Tutte le energie, le spinte che attraversavano - ed attraversano - il mondo, sino ad allora volenti o nolenti costipate in questo ‘gioco’ bipolare, furono liberate.

Ed i segnali si videro subito. L’esordio del nuovo disordine mondiale furono due guerre, in Iraq ed in Serbia, nel cuore dell’Europa. Ma neanche allora riuscimmo a coglierne il senso più profondo, il segnale che - caduto un ordine mondiale - quella che si apriva non era affatto la stagione di un nuovo equilibrio, ma quella del disordine che doveva portare alla definizione di un nuovo ordine. Un ordine che non poteva essere altro che multipolare, ma che qualcuno voleva invece che fosse unipolare.

Ed è questa la contraddizione più stridente, e quindi la minaccia più stringente. C’è una superpotenza che ha costruito la propria ascesa sulla forza economica del capitalismo, e sulla forza militare. Oltre ottocento basi militari in quasi tutto il mondo, una cosa senza precedenti nella storia dell’umanità. Questa superpotenza ha visto cadere il suo avversario storico, ha creduto d’aver vinto, e si è trovata - contemporaneamente - all’apice della sua potenza, ed al punto in cui comincia il declino. Ma, finita l’era del conflitto ideologico, dello scontro tra due diverse visioni della società, è riemerso il vecchio conflitto geopolitico, che le ideologie avevano un po’ occultato ed un po’ ammantato.

Ai primi del ‘900 eravamo meno di due miliardi. Oggi siamo quattro volte tanto. Il mondo s’è fatto ‘stretto’. Consumiamo più cibo - più acqua, più terreno, più energia. La pressione antropica sul pianeta cresce costantemente, i nostri bisogni crescono in modo esponenziale.

La competizione si fa feroce, vecchie e nuove superpotenze si affacciano, e sgomitano per accaparrarsele, per mantenere il controllo su quelle che possiedono.

La guerra russo-ucraina, nella sua essenza, è precisamente questo, il segnale che l’attrito tra le superpotenze produce calore, fa alzare la temperatura sino ad incendiare tutto. Dunque occorre trovare il modo di gettare acqua sul fuoco, di stemperare le tensioni, di fermare l’attrito.

E questo compito non può che svolgerlo l’Europa, che è di fatto una potenza, ma che non ha alcuna politica ‘imperiale’, espansiva, e non è quindi direttamente in conflitto con nessuna delle potenze che, invece, si mostrano i muscoli e si digrignano i denti.

Questa è, per l’Europa, la seconda opportunità dopo quella seguita alla caduta dell’URSS. Ma è molto più delicata di quella, perchè adesso siamo assai più vicini al precipizio. Paradossalmente, proprio il fatto che sia venuto meno lo scontro ideologico, che oggi l’economia capitalista (anche se in forme leggermente diverse, e con diverse forme politiche) sia dominante su tutto il pianeta, costituisce un fattore di ulteriore pericolo; proprio perchè il capitalismo è intrinsecamente espansivo, energivoro, il fatto che tutte le tre grandi potenze abbiano oggi un’economia di tipo capitalistico le rende reciprocamente più competitive.

“Ed è proprio la natura capitalistica dei tre imperi contemporanei, di là dalle differenze, anche marcate, che li distinguono, l’elemento di maggior pericolo. Perchè essi competono sullo stesso terreno, hanno esigenze assai simili.

Il mondo su cui ci affacciamo, ricorda per certi versi gli Stati Uniti della seconda metà dell’800. Gli stati del Sud rappresentavano il capitalismo ‘tradizionale’, basato sul latifondo e lo sfruttamento della mano d’opera schiavizzata, gli stati del Nord rappresentavano il capitalismo ‘moderno’, basato sull’industria e sullo sfruttamento della mano d’opera salariata. Entrambe si percepivano come portatori di valori diversi, perchè ciascuna società costruisce una propria weltanschauung, ma al di là di queste differenze, per quanto possano apparire marcate, e per quanto potessero essere soggettivamente percepite come fondamentali, Sud e Nord erano due modelli di capitalismo, ed è esattamente per questa precisa ragione che entrarono in conflitto. La guerra civile americana è stata una guerra per la supremazia di un capitalismo su un altro, non uno scontro di civiltà.”1

Il bivio dinanzi a cui si trovano oggi gli europei - e sottolineo “gli europei”, non semplicemente l’Europa, come astratta entità geografica e/o come semi-entità politica - è esattamente questo.

Possiamo e dobbiamo scegliere. O essere elemento di distensione, di equilibrio, di pace. E quindi lavorare per comporre i conflitti, per abbattere le diffidenze, per stabilire regole di convivenza e di scambio comuni. O essere elemento di parte, fare una scelta di campo, che è anche ineluttabilmente una scelta di guerra. E noi siamo terra di frontiera, siamo campo di battaglia. O la pace, o la guerra civile globale. Tertium non datur.

1 Enrico Tomaselli, La guerra civile globale.