Se Carlo Dal Zot non fosse partito dai piedi delle Dolomiti per la Prussia degli Hohenzollern, l’attuale Lituania, oggi la piccola comunità rurale di Faller sulla Valle del Cismon, non godrebbe delle prodigiose produzioni di Pom prussian, una ricercatissima mela locale ormai di antiche e illustri origini. L’avvincente storia è antica quanto narrativa per le molteplici vicissitudini che hanno fatto diventare una mela l’orgoglio di un territorio alpino e del popolo Walser, da cui sembra si siano originati gli abitanti di Faller, borgo rurale nel Parco delle Dolomiti Bellunesi. Walser sinonimo contratto di Walliser, Vallesani, indica il popolo che ha dato vita alla più suggestiva colonizzazione delle Alpi provenienti dal ceppo tedesco “Alemann”, insediato intorno al X secolo dalle pendici del Monte Rosa per estendersi in buona parte dell’arco alpino1.

Non si tratta solo di un’emigrazione ottocentesca come tante altre quella della popolazione dei montanari, che dalle aree rurali più povere alpine, a metà secolo, grazie alla realizzazione delle ferrovie verso Vienna e poi a Nord verso i distretti minerari fino alle zone baltiche, hanno raggiunto i territori della Slesia, un tempo parte della Prussia, la Polonia e altre regioni per lavorare nell’estrazione di carbone, ferro, zinco, piombo, rame, argento e oro. Molti anche i giovani del paesino di Faller che cercarono lì sostentamento, lontani dal paese di origine mentre trovarono sacrificio, malattie, vita estrema in mezzo al freddo, ai crolli frequenti nelle viscere della terra, lavorando anche 15 ore al giorno, a volte morendo per asfissia a causa delle frequenti esplosioni.

Molto sensibile e attenta alle condizioni di salute e psichiche di questi minatori rimane nella storia la principessa Marianna d’Orange (1810-1883), cultrice del paesaggio della bassa Slesia, che promosse e incentivò la rinascita rurale della regione facendo costruire fattorie, strade, scuole, asili e ospedali. Figlia del re d’Olanda Guglielmo I e Guglielmina di Prussia, accettò suo malgrado un matrimonio combinato, come avveniva per motivi politici e di casta, con il cugino principe Alberto di Prussia. Nonostante la nascita di quattro figli il matrimonio fu disastroso per la violenza morale e i tradimenti del principe, tanto che la giovane Marianna non intimidita da quello che le sarebbe potuto accadere dopo, divorziò dal marito ed ebbe un figlio da un nuovo consorte di semplici origini. Questo fu visto come uno scandalo e le costò di essere ripudiata dall’intera famiglia reale, al punto che non poteva nemmeno vedere i figli se non raramente potendosi trattenere non più di una giornata nel castello. Costruì così una sua dimora al confine con la Prussia, più vicina possibile al castello reale poco distante da Kamenz. Ancora oggi al castello di Kamenz è ricordato il passaggio segreto in cui Marianna entrava per vedere i suoi figli.

Nel parco del Castello Marianna aveva già coltivato piante e soprattutto alberi da frutto con mele di rinomata qualità come la mela prussiana. Il suo giardiniere C. Braun l’aveva ottenuta incrociando la mela di varietà Kaiser Alexander con la mela Renetta Bauman, proprio in segno di affetto e dedizione alla tanto amata regnante Marianna. Fu così che venne dato alla mela il nome del primogenito di Marianna: Prinz Albrecht von Preußen2. I migranti, in particolare Carlo Dal Zot, apprezzarono le dolcissime e coloratissime mele e rientrando in patria a fine Ottocento e innestarono con le marze (parti di rametti) originarie, i meli selvatici e spontanei del territorio di Faller. Questa preziosa varietà di mela, se inizialmente era una comune merce di scambio durante i periodi difficili della guerra, in seguito divenne un prodotto locale tipico e quegli alberi diventati ormai adulti e sani producevano sempre di più costituendo una buona fonte di reddito per la comunità rurale.

Fino alla metà del secolo scorso il periodo della vendemmia comportava un gran fermento anche per la raccolta manuale della mela prussiana, con movimento di ceste e slitte con giovani che a tracolla portavano sacchi pieni, dopo essersi arrampicati sui poderosi alberi stracarichi di mele, mentre donne e bambini raccoglievano quelle cadute a terra. Però l’avvento della chimica in agricoltura dopo la Seconda guerra mondiale e la produzione crescente di mela Red delicius in Trentino, a poca distanza dal confine Veneto, fece crollare il valore antico della mela prussiana, oggi chiamata ancora in dialetto Pom prussian. L’arrivo della frutticoltura intensiva per la grande distribuzione, insieme alla massiccia produzione del consorzio della mela a marchio Melinda, schiacciarono la notorietà locale della bella mela croccante, succosa e facilmente conservabile nei pomari secondo la tradizione; tramontava un prodotto sano, non trattato perché di piante robuste innestate su selvatico, resistenti alle malattie e precoce nella produzione, perfino un mese prima della classica mela Golden, di grande pezzatura e di picciolo ridottissimo tanto che sembra attaccata direttamente ai rami.

Circa 15 anni fa l’idea di un piccolo gruppo di persone locali, supportate inizialmente da un sostegno privato, fa sì che la mela torni alla ribalta proprio con l’intento di far conoscere e riscoprire il territorio di Faller. Nasce così nel 2006 il Consorzio per la tutela del Pom prussian che garantisce origine e qualità del frutto. Così mi racconta con orgoglio il presidente dell’Albergo diffuso di Faller, il biologo Guido Trento, mentre passeggia e guarda i meli secolari che si snodano a centinaia tra i sentieri innevati, studiati secondo diversi itinerari di escursione con diversa difficoltà e spettacolarità del paesaggio dolomitico, senza i soliti impianti sciistici o parcheggi affollati di turisti. Appassionato delle sue montagne mi spiega che la mela ha subito una sorta di salvataggio e ha ripagato tutta la comunità, che grazie alla messa a disposizione di alloggi tipici della zona da parte di alcune famiglie, ospita un turismo diverso. quello che apprezza paesaggio, tradizioni, prodotti locali sani come la mela prussiana. Questa varietà, al contrario delle specie comuni, non viene potata severamente come avrebbero voluto i tecnici agronomi della zona ma viene lasciata sviluppare naturalmente con piccoli interventi per arieggiare la chioma ed eliminare il legno secco. Si raccoglie manualmente quando a fine estate le piante secolari sono stracariche di frutti, pronte per la consueta fiera di ottobre che ospita in paese visitatori in gran folla al punto da creare per l’occasione dei piccoli trasporti locali al servizio della festa.

Trento mi fa visitare anche un piccolo vivaio familiare, gestito da padre e figlio in una frazione di Faller, che si sono spesi da alcuni anni per produrre piantine di mela prussiana e i trasformati, con un laboratorio biologico delle piccole produzioni locali. Qui si può trovare del buon succo di mela biologica, sidro, grappa di mela, aceto, squisite confetture e composte tutte di frutti selvatici di montagna, di mele, castagne e mirtilli. Da non dimenticare il gialèt3, il piccolo fagiolo verde-giallo che i contadini destinavano alle persone importanti perché più delicato e dolce del comune fagiolo di Lamon prodotto proprio nella zona.

Insomma questa che vi ho raccontato è una storia a lieto fine che ha visto tutta la comunità impegnata anche con un’osteria tipica, una trattoria che cucina il meglio dei prodotti locali, nel preservare una mela, che dice il presidente, “andrebbe lasciata maturare come da tradizione nelle vecchie baite in mezzo al fieno”, per goderla al massimo della sua dolcezza e del suo sapore! In ottobre i visitatori se ne portano via cassette perchè la mela “va a ruba” cosicché i locali devono mantenerne un po' per farne marmellate, come antichi custodi a cui va tutto il merito di averle salvate!

Note

1 Per approfondimenti si veda Fondazione Angelini Centro Studi Montagna (a cura di), Insediamenti alpini nelle Dolomiti, in Carnia e nei territori Walser, 1996.
2 Oggi questa pianta è reperibile sul mercato come varietà di mela, ed è considerata una vecchia varietà ideale per i giardini domestici.
3 Detto anche fasol biso, o solferino, il gialèt è nella memoria storica della Val Belluna e la sua coltivazione è documentata dall’inizio del Novecento. Oggi è presidio Slow Food.