Così come avveniva a Milano e più generalmente in Lombardia e in altre regioni dell’Italia settentrionale, le autorità locali, sindaci e prefetti in particolare, anche a Roma, facevano a gara per negare la presenza delle mafie sui propri territori, indignandosi anzi nei confronti di coloro che osavano macchiarne l’onore, fossero giornalisti, saggisti e persino magistrati della Procura nazionale antimafia. La realtà, sia pure con ritardo, finisce, come sempre accade, per imporsi e rivelare non solo la vastità delle presenze criminali su quei territori, ma anche le complicità nascoste, le inefficienze e i ritardi, se non la copertura, per pavidità e interessi occulti, a quelle presenze. La citazione della Lombardia non è casuale dal momento che essa fu quella più interessata dall’infiltrazione, o, meglio, dall’occupazione, della ‘ndrangheta calabrese. Già negli anni ’70 la loro presenza fu massiccia nel settore dei sequestri di persona, ancora più numerosi di quelli avvenuti, sempre ad opera della ‘ndrangheta, in Calabria.

Anche a Roma la ‘ndrangheta operò nel medesimo settore con tre sequestri di persona. Il più clamoroso fu quello di John Paul Getty III, nipote del miliardario americano, avvenuta a piazza Farnese alle 3 del mattino del 10 luglio del 1973, quando il giovane aveva appena sedici anni. Le cosche operanti furono quelle della fascia tirrenica della provincia reggina e precisamente quella dei Mammoliti, Piromalli e Femia. Venne liberato il 15 dicembre del 1973 lungo l’autostrada Salerno-Reggio Calabria, all’altezza dello svincolo per Lauria, provincia di Potenza, dopo il pagamento di un miliardo e settecento milioni delle vecchie lire (equivalenti a circa 110 milioni di euro). A indurre il nonno a pagare il riscatto fu l’invio dell’orecchio destro e di una ciocca di capelli del giovane.

Il secondo sequestro compiuto a Roma fu quello dell’imprenditore Giuseppe D’Amico avvenuto il 29 giugno del 1975 e rilasciato alcuni mesi dopo a San Luca (RC), dietro pagamento del riscatto, di circa un miliardo di lire.

Seguì il sequestro dell’industriale farmaceutico Maurizio Gellini, avvenuto a Pomezia nel 1982 e, successivamente, quello di Vincenzo Granieri, titolare con i fratelli Carlo e Giuseppe della società "Carni Roma", e di una decina di negozi nella capitale. Il sequestro di quest’ultimo avvenne il 24 maggio del 1983 a Roma, davanti ad un autosalone di via Nomentana. Granieri venne subito trasferito in Calabria su un camion adibito al trasporto di mobili, dove pagato il riscatto, il cui importo fu di circa 900 milioni, versati in Aspromonte da un incaricato della famiglia ad un emissario della banda.

Nella prima metà degli anni ’70 molti esponenti apicali della ‘ndrangheta reggina decisero di allontanarsi dalla provincia di Reggio e di spostare il centro delle proprie attività sulla capitale. Non si trattò di decisioni di singoli, ma del gotha della ‘ndrangheta reggina desiderosa di stringere collegamenti non solo con le altre organizzazioni criminali della capitale, ma di avvicinarsi ai centri del potere politico e alla P2 di Licio Gelli. Il “trasferimento” fu tuttavia di breve durata. Dopo l’omicidio di Aldo Moro avvenne un nuovo trasferimento da Roma a Milano, soprattutto delle potenti cosche di Platì, i Papalia, i Barbaro, i Sergi, oltre ai Morabito di Africo (RC). I comuni interessati furono quelli di Buccinasco, Corsico, Desio e molti altri ancora.

La Lombardia offriva infatti nuove e più cospicue occasioni di arricchimento, quale centro degli affari, della Borsa, della maggior parte delle attività produttive, con particolare riguardo a quelle legate al cosiddetto “ciclo del cemento”. Le imprese si muovevano come se da parte loro vi fosse una vera e propria “richiesta di ‘ndrangheta” e ciò per tre motivi: la disponibilità di liquidità dovuta ai proventi del traffico di sostanze stupefacenti, la possibilità di utilizzare la capacità intimidatoria delle cosche per battere la concorrenza, il controllo delle richieste sindacali. Non a caso la relazione del 2008 della Commissione parlamentare Antimafia, presieduta dall’On. Francesco Forgione, definì capitale della ‘ndrangheta non più Reggio Calabria e la sua provincia ma Milano (e la cintura dei comuni limitrofi).

Tornando alla presenza della ‘ndrangheta a Roma, va ancora segnalata l’alleanza stabilita già negli anni ’70 con la Banda della Magliana, provata inconfutabilmente dall’irruzione della Squadra Mobile di Roma del 18 ottobre 1975, nel ristorante dell’EUR “Il Fungo”. Alla cena erano presenti i vertici della ‘ndrangheta reggina, quali Giuseppe Piromalli, Pasquale Condello e Paolo De Stefano, insieme a Giuseppe Nardi, Manlio Vitale e Gianfranco Urbani, componenti della banda criminale romana. Le due organizzazioni criminali avevano in comune lo stretto rapporto con la destra eversiva, come confermato dalla disponibilità che Paolo De Stefano aveva di un’abitazione nella capitale condivisa con Pier Luigi Concutelli, appartenente ai N.A.R., autore dell’omicidio del giudice Vittorio Occorsio, del 10 gennaio del 1976. Concutelli, nel corso di un processo celebrato a Reggio Calabria, dichiarava di aver trascorso, verso la metà degli anni Settanta, un breve periodo di latitanza presso un’abitazione di Roma nella disponibilità di Stefano Delle Chiaie, ove, oltre a quest’ultimo, si rifugiavano altri estremisti. In quel luogo aveva avuto modo di conoscere Paolo De Stefano (capo del “clan” mafioso De Stefano-Tegano), anch’egli latitante, il quale per un breve periodo era stato ivi ospitato. Ora, com’è noto, i “covi” delle forze eversive sono tra i luoghi più segreti e protetti, potendo comportare la loro individuazione la messa in pericolo degli adepti e, addirittura, dell’intera organizzazione, per cui la presenza di Paolo De Stefano nel “covo” dei terroristi indica che essi lo consideravano alla stregua di un loro affiliato e, quindi, persona nella quale riponevano la loro massima fiducia.

Qualche giorno prima del suo assassinio, parlando con un giornalista, Occorsio aveva detto "ho tra le mani qualcosa di clamoroso", e certamente in quei giorni la sua attività dovette essere frenetica se è vero che si era incontrato con un giudice di Zurigo circa i canali di riciclaggio del denaro "sporco" proveniente dai sequestri di persona, se si stava occupando dell' acquisto della sede a Roma dell'OMPAM (Organizzazione Mondiale per l'Assistenza Massonica), se, infine, proprio due giorni prima del 10 luglio aveva convocato nel suo ufficio Licio Gelli.

Il pubblico ministero romano, che si era già occupato di Ordine Nuovo, stava indagando, insieme al giudice istruttore Ferdinando Imposimato, dei sequestri di persona avvenuti a Roma ad opera della ‘ndrangheta e del riciclaggio dei relativi riscatti. Egli, infatti, era assai interessato ad indagini circa il collegamento tra la nascente P2, traffici internazionali di armi, facenti capo in particolare ai marsigliesi, eversione nera e criminalità calabrese dedita ai sequestri di persona, anche con riferimento ai fratelli Giorgio e Paolo De Stefano. Occorsio si muoveva anche sulla base delle confidenze ricevute da un personaggio della ‘ndrangheta reggina di primaria importanza quale Antonio D’Agostino, detto Totò. Non certo a caso, all’omicidio del magistrato (7 ottobre 1976) seguì a breve distanza quello di Totò D’Agostino (2 novembre dello stesso anno, a piazza Euclide a Roma, all’uscita di un ristorante), attribuito inizialmente a Domenico Papalia, per il quale nel 1983 viene condannato definitivamente all'ergastolo. Nel 2017, tuttavia, dopo 41 anni dall'omicidio D'Agostino, in seguito a processo di revisione, Papalia viene assolto dall'accusa per non aver commesso il fatto. La caratura criminale della famiglia viene in evidenza nel 1993, quando nel processo di prevenzione per l’applicazione di misure patrimoniali, gli vennero sequestrati, insieme ai fratelli Rocco e Antonio, beni per un valore di 150 miliardi di lire.

Con due rapporti, il primo del 15 aprile 1977, il secondo del successivo 20 aprile, i Carabinieri del Nucleo operativo di Roma denunziavano numerosi soggetti, tra i quali Giorgio De Stefano, fratello di Paolo, appartenenti alla potente famiglia di Archi di Reggio Calabria, per associazione a delinquere, traffico e fabbricazione di armi e altro. Il giudice istruttore con ordinanza del 12 giugno del 1979 disponeva il rinvio a giudizio di quindici imputati ed il proscioglimento del De Stefano per intervenuta morte dello stesso. Era stato infatti ucciso il 7 novembre del 1977 nel corso di una riunione di vertice tenuta nella montagna di Gambarie d’Aspromonte (RC).

Le presenze della ‘ndrangheta a Roma non hanno tuttavia determinato la formazione dei “locali” di ‘ndrangheta, cioè le organizzazioni territoriali di base, come avviene in tutti i luoghi in cui essa opera (solo in Lombardia i locali sono circa cinquanta) essendosi convenuto che la capitale dovesse considerarsi “città aperta” nella logica mafiosa, essendo la sede del governo, dei ministeri, del potere politico, e come tale accessibile, per gli opportuni rapporti, ad ogni organizzazione criminale di tipo mafioso.

Nuove occasioni di presenze della ‘ndrangheta nella capitale furono determinate dalla possibilità di profitti di enorme portata, assicurati dal traffico di sostanze stupefacenti, di ogni tipo Secondo l'ultimo rapporto semestrale della Direzione Investigativa Antimafia, sono almeno trenta le piazze di spaccio "censite" dentro il Grande Raccordo Anulare. Nel solo centro storico si contano quelle Campo de' Fiori, Centocelle, Ponte Milvio, Trastevere, Eur, Testaccio, Magliana, piazza Bologna, piazza Vittorio, Pigneto, San Giovanni, San Lorenzo, San Paolo-Ostiense, Termini e Garbatella. Per evitare conflitti tra le varie organizzazioni mafiose per la conquista di tali piazze, la pax criminale è stata assicurata dalla suddivisione delle piazze di spaccio tra "ex appartenenti alla banda della Magliana", e le "mafie tradizionali” come camorra, cosa nostra e 'ndrangheta.