I cosiddetti wearable device o dispositivi indossabili (DI), costituiti da uno o più biosensori, inseriti su capi di abbigliamento quali orologi (smartwatch), magliette, scarpe, pantaloni, cinture, fasce (smart clothing), occhiali (smart glasses), possono rilevare e misurare diversi parametri biologici (frequenza cardiaca, respiratoria, aritmie, saturazione di ossigeno, temperatura corporea, pressione arteriosa, glucosio, sudore, respiro, onde cerebrali) e fornire informazioni sullo stile di vita (attività fisica, sonno, alimentazione, calorie consumate); il più diffuso è lo smartphone.

Questo permette l’interazione con i pazienti (e-mail, sms, social network) ma anche, essendo dotato di sensori di movimento, traccia la posizione nello spazio e l‘attività fisica, ad esempio, il numero dei passi dell’utente durante la giornata. I sensori degli smartphone sono anche in grado di segnalare eventuali cadute a terra, flussi respiratori, frequenza cardiaca e saturazione di ossigeno. I DI sono una categoria ad alto potenziale di crescita, il cui mercato è in continua espansione per vari motivi, ad esempio, per i costi sempre più ridotti e il miglioramento della tecnologia, che ha permesso di miniaturizzare le componenti elettroniche, rendendo i dispositivi leggeri e di dimensioni contenute così da poter essere indossati o integrati nell’abbigliamento1, diventando in certi casi dei veri e propri status symbol.

Esistono peraltro numerose perplessità come la mancanza di filtri per quanto riguarda affidabilità e possibile incongruo utilizzo dei dispositivi. È quindi indispensabile estrema cautela da parte delle istituzioni, dei clinici e dei ricercatori, in particolare sono irrinunciabili studi rigorosi di validazione clinica2. In particolare, non sappiamo se il tele monitoraggio di per sé migliora gli esiti clinici.

La “sensorizzazione” fa peraltro ormai parte della vita quotidiana di molte persone, soprattutto peraltro di quelle che in realtà ne hanno meno bisogno: giovani, mediamente benestanti, tecnologicamente competenti e già fortemente orientati ad utilizzare la tecnologia.

L’Internet delle cose

L’integrazione tra le tecnologie di connessione tra smartphone e biosensori e la disponibilità delle cosiddette home utility sta trasformando anche il “dove” la cura sarà fornita negli anni a venire, soprattutto per i pazienti affetti da malattie croniche, trasportabili con difficoltà dalla propria casa all’ospedale. Il cosiddetto Internet delle cose (IoT) ha l’obiettivo di realizzare la smart medical home, a breve connessa con la città smart, caratterizzata dallo sviluppo di sensori, a livello del pavimento e indossabili, telecamere, apparecchi a infrarossi, che possono valutare il rischio di caduta e in generale la validità della deambulazione, o riconoscere la caduta, con segnali di allerta per care givers o centri di riferimento collegati in remoto.

Nella smart home PA, FC, peso corporeo, urine e feci potranno essere analizzate quando il paziente si siede sul water. Sono inoltre disponibili sensori, posti tra il materasso e le lenzuola, in grado di registrare automaticamente i dati relativi al sonno e inviarli mediante una connessione Bluetooth ad una app su smartphone o tablet. Il sensore riconosce quando il paziente si sdraia e avvia automaticamente il monitoraggio, raccogliendo e analizzando la durata e l’efficacia del sonno, la FC, la respirazione, il movimento, il russamento, la temperatura e l’umidità della stanza.

Algoritmi di machine learning sarebbero in grado di identificare e analizzare l’introduzione di cibo e combinare tali informazioni con la variazione di peso monitorata passivamente, a livello di pavimento o toilet, per realizzare piani dietetici individualizzati, tenendo conto anche del consumo calorico. L’accuratezza dell’introduzione alimentare è peraltro difficile da assicurare. Ad esempio, per il comune utente, può essere difficile identificare e quantificare le singole componenti di cibi complessi3. Esistono difficoltà di acquisizione dei dati da parte delle persone anziane o comunque sono evidenziati disagi tali da non rendere percorribile un monitoraggio intensivo.

Riflessioni e conclusioni

L’utilizzo dei DI peraltro non è soltanto un problema di efficacia/efficienza ma di cambiamento di paradigma culturale. Il rischio è che si stia realizzando una sorta di nuovo apparato sensoriale, una strumentazione pervasiva, in grado di accedere a realtà fisiche, sociali e ambientali in modalità, scale e forme che non hanno precedenti nella storia dell’umanità. Per effetto di queste nuove prospettive di indagine, di rappresentazione digitale del nostro corpo, stiamo cominciando a registrare con occhi nuovi e ridefinire lo stesso concetto di identità corporea.

Con i dispositivi indossabili e l’Internet delle cose la casa, simbolo di intimità, luogo affettivo e protettivo, dove fin da bambini le persone iniziano a definire la propria persona, svolgono le prime esperienze e vissuto situazioni irripetibili, rischia metaforicamente il crollo. Le pareti diventano di vetro, la rete si insidia all’interno, i confini con l’esterno cancellati, l’ultimo rifugio cancellato.

La casa, concettualizzata in inglese come “home” diventa luogo “pubblico”, smart house, ulteriore tassello della medicalizzazione non solo della salute ma della vita stessa.

Note

1 Za Stefano. Internet of Things. Persone, organizzazioni e società 4.0. Roma, LUISS University Press, 2018.
2 Cohen AB et al. Direct-to-consumer digital health. Lancet Digital Health 2020.
3 Lobstein T. Can wearable technology help patients tackle obesity?, BMJ Opinion 2016.