Nel 1995 mi sono laureata in medicina presso l’Università degli Studi di Milano; nel 2000 ho iniziato il percorso di formazione in cure palliative attraverso i master e dal 2001 svolgo la mia professione come medico palliativista in associazione Vidas che dal 1982, in Milano e nei comuni dell'hinterland, assiste malati inguaribili.

Per 14 anni ho assistito pazienti adulti al termine della vita. Dal 2015 assisto al domicilio, insieme ad una équipe dedicata, minori inguaribili e le loro famiglie; dal 2019 faccio parte dell’équipe dell'hospice pediatrico di Milano, Casa Sollievo Bimbi.

Associazione Vidas mi ha dato l'opportunità di esercitare la professione medica nel modo che io ritengo più autentico, permettendomi di conciliare la componente umana e quella tecnico-scientifica dell'arte medica.

Un autoritratto che racconti di lei.

Mi ritengo una donna semplice, concreta, riservata, a tratti schiva e severa con me e con gli altri. Provengo da una famiglia numerosa, sono nata a Milano, quinta di cinque figlie femmine.

Sono sposata da 26 anni con un uomo che conosco da sempre, compagno con una pazienza infinita e solido approdo. Sono madre di due splendidi giovani uomini. Da sette mesi la nostra famiglia ha accolto Peggy, una cucciola di bassotto, vento leggero e gioioso nella nostra quotidianità.

Ho varcato da poco la soglia dei 50 anni, età dei bilanci che mi consente di vedere con la giusta distanza la strada fino ad ora percorsa, i miei lati oscuri, i miei limiti e iniziare a lasciare andare, provando a trasmettere qualcosa di me.

Ho sempre cercato di portare avanti con responsabilità tutto ciò che ho affrontato sia nella vita privata che in quella professionale. Esercito la professione che ho scelto, che mi appassiona, che mi ha richiesto e richiede impegno costante, restituendomi molto.

Amo la natura, gli occhi dei bambini, sfogliare alcuni libri compagni di viaggio e scoprire che ogni volta mi dicono qualcosa di nuovo.

Come nasce la passione del prendersi cura degli altri?

Le origini in una famiglia numerosa, i valori cattolici che sono dentro di me da sempre e l’allenamento fin da piccola a farmi da parte dimenticandomi di me per dare spazio e tempo all’altro senza dubbio hanno influenzato la scelta di un percorso universitario che potesse permettermi di essere concretamente utile ad altri essere umani.

Giorno dopo giorno la mia professione mi ha richiesto un importante lavoro nel cercare di trovare la giusta distanza o vicinanza nella relazione con l’altro; se ci sono riuscita, credo con sufficiente equilibrio nella vita professionale, riconosco di non esserci riuscita sempre così bene nella vita privata rischiando a volte di diventare “riccio” per proteggermi.

Se non fossi entrata nella facoltà di medicina avrei voluto fare l'architetto costruendo del bello per altri esseri umani. Sono felice di essere diventata medico perché ho potuto contribuire nel mio piccolo ad attuare una medicina autentica che mi permette di incontrare la bellezza nell’essere umano.

E in seguito la scelta di diventare palliativista.

Ho incontrato le cure palliative per “serendipità”, cercavo altro o forse non sapevo cosa cercavo quando, dopo la nascita del mio secondo figlio, mi misi in gioco nel costruire il modo di essere medico che più mi apparteneva. Mi iscrissi al master in cure palliative e non ho più lasciato questa medicina che si prende cura del paziente affetto da malattia inguaribile all'interno delle sue relazioni significative rispondendo ai bisogni clinici ma non solo- anche sociali, spirituali, educativi, psicologici, esistenziali- attraverso équipe multiprofessionali dove il protagonista o, come mi piace definirlo, il “direttore d'orchestra” rimane sempre il paziente.

Quello che più mi affascina della medicina palliativa è la necessità di lavorare costantemente per affinare udito, cuore e mente all'ascolto dei bisogni dell'altro, per dare risposte “cucite su misura”, come un artigiano in bottega che confeziona il suo prodotto, unico nel suo genere.

Un campo importante e doloroso della medicina.

Le cure palliative sono una medicina che non si occupa della malattia ma della persona che vive la malattia, una malattia inguaribile; partono dalla cura dei sintomi, primo tra tutti il dolore che spesso è dolore totale, non solo fisico ma anche emotivo, spirituale, esistenziale. Quotidianamente da 20 anni vivo accanto alla sofferenza e ammetto che in alcuni momenti mi sembra di non farcela e mi dico: “È troppo”. Mi è capitato di pensarlo ultimamente accompagnando nel fine vita una ragazza affetta da una rara malattia genetica che si è arresa proprio in piena pandemia, a casa, circondata dalla sua famiglia. Ancora una volta l'incoraggiamento è arrivato proprio a casa della paziente, attraverso le parole pronunciate dalla mamma che, salutandomi nel giorno della morte della figlia, mi ha detto: “Sento una calma inspiegabile che non avrei mai pensato di vivere in questo momento”. Ed ecco che allora mi dico che condividendo anche il peso più grande, come la morte in pandemia, può essere tollerato. “Palliativo” infatti deriva da “pallium”, il mantello che San Martino ha condiviso con il mendicante.

La sua esperienza al Vidas: vissuti intensi di lotta contro il dolore del corpo, ma anche per far fronte al dolore emotivo: significa prendersi cura di tutta la persona nella sua interezza.

Vidas ha fatto suo uno dei fondamenti delle cure palliative: il passare dalla medicina che cura - “to cure” - alla medicina che si prende cura - “to care”. Il lavoro dell’équipe di cure palliative è quello, partendo dalla attenta raccolta dei bisogni, di costruire risposte concrete, personalizzate; ogni sintomo o problema assume sfumature diverse in ogni storia. Di fronte alla vita che perde ogni certezza, che ha davanti tanti punti di domanda e tanta sofferenza, ci troviamo a fare i conti con tutte le emozioni, più o meno intense. Accoglierle, non giudicarle e imparare ad ascoltare come risuonano dentro di noi è un impegno costante. Ecco allora l’importanza di trovare qualcuno con cui riuscire a condividerle ma anche l’importanza di capire quando è il momento di costringersi a fare una pausa rigenerante.

In particolare, si occupa di bambini oncologici... si ha a che fare con situazioni e dolori impensabili. Un bambino che dovrebbe affacciarsi alla vita, si ritrova invece con la porta chiusa, col terrore del buio, dell’ignoto…e i bambini hanno un’incredibile capacità di ingaggiare gli adulti attirandoli in vortici emotivi vertiginosi, sono carichi di forza ed energia.

Ho incontrato per le prime volte bambini affetti da malattia inguaribile da laureanda. Erano piccoli pazienti affetti da HIV che morivano dopo infiniti episodi infettivi nei reparti di pediatria, e, quando nel 2015 Vidas ha iniziato a prendere in carico al domicilio piccoli affetti da patologia oncologica, ho sentito che avrei potuto dare il mio contributo. Con il tempo ho sperimentato quanto i piccoli pazienti e i loro genitori siano maestri di vita. Numerosi volti ho davanti agli occhi, ognuno di loro sicuramente mi ha messo alla prova ma nello stesso tempo mi ha insegnato qualcosa di molto prezioso per la professione di medico e per la vita; per esempio, l’importanza di riuscire a stare anche quando non ci sono risposte certe, quando il sintomo diventa difficile da trattare, quando la propria fatica inizia a farsi sentire.

Un antico proverbio africano recita che “per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”, potrebbe essere diverso nel momento della malattia e della morte? Non credo. Ecco allora l'importanza di sentirsi parte di un gruppo, “l’équipe”, con cui condividere le fatiche, confrontarsi sugli aspetti tecnici, piangere, ridere; ma anche l’importanza di sapere che un’intera comunità è di supporto, anche se a distanza e con diverse modalità. Prendere consapevolezza che la malattia e la sofferenza esiste anche per il bambino credo sia già un importante passo avanti.

Ogni bambino che muore lascia in chi resta un carico di energia enorme, come un'onda che si propaga; lo dimostrano tutti i genitori che dopo la perdita del figlio sentono di dover restituire qualcosa al mondo facendo del bene. Credo che il compito di chi sta accanto al dolore sia anche quello di contribuire in qualche modo a trasformarlo in energia positiva.

Oltre al bambino c’è da prendersi cura anche dei genitori, dalla comunicazione della diagnosi infausta fino all’accompagnamento sulla strada della separazione.

“To care” significa anche avere cura delle relazioni affettive. Spesso mi è capitato di accogliere tanta rabbia di fronte alla consapevolezza che il proprio figlio è condannato a non diventare grande. Tante altre volte invece mi sono sentita supportata da genitori i quali in modo splendido hanno saputo accettare il limite umano e tecnico della medicina. Aver condiviso ed esplicitato con le parole il limite, ha spesso aiutato anche i genitori, e noi personale sanitario con loro, ad alleggerire il peso di quello che si stava vivendo. Come ci insegna Calvino: “...leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall'alto, non avere macigni sul cuore”.

Mi vengono alla mente diversi genitori che abbiamo sostenuto ed aiutato nella difficoltà ad accogliere ed entrare in relazione con il loro bambino gravemente malato, magari dipendente da presidi di supporto vitale o con grave compromissione neurologica; insieme ci siamo riusciti, nonostante tutto.

Come tollerare tutto questo carico emotivo così pesante e doloroso?

Non sempre è facile, ho attraversato momenti cupi e tristi. Il lavoro costante in équipe è senza dubbio un importante paracadute ma credo che sia altrettanto importante coltivare anche al di fuori del contesto professionale ciò che possa ridare energia e motivazione e credo di averlo trovato in questi anni soprattutto nell'affetto delle persone care e in spazi di spiritualità.

Quanto la sua missione, inevitabilmente coinvolgente, si riflette nella sfera personale?

Così come devo riconoscere alla mia famiglia di origine un ruolo importante nel condizionare le mie scelte professionali; la famiglia che ho costruito mi ha sempre sostenuta standomi accanto, in diversi modi: comprendendo il mio prendere e partire quando il telefono squillava o squilla per qualche urgenza anche di notte, accogliendo le mie delusioni e lacrime, rispettando i miei silenzi, sdrammatizzando, facendomi ridere, distraendomi. Ho cercato di conciliare il ruolo di medico e di madre ritagliandomi tempo per stare con i miei figli; ancora oggi appena posso cerco di conquistarmi la loro compagnia. Avere la certezza di un nido sicuro, dove ripararmi durante le tempeste credo sia stato e sia tutt'ora vitale. Rimpiango di aver investito poco sia in termini di tempo che di testa nel coltivare passioni e interessi al di fuori dell’ambito professionale in modo continuativo e approfondito; conto di riuscirci prima o poi, ho dei piccoli sogni nel cassetto, per esempio qualche viaggio, imparare a lavorare la ceramica.

Come riesce a metabolizzare, bonificare tutto il dolore, l’ansia, la disperazione in cui è immersa?

Trovo molto bello il termine bonificare, mi fa pensare a quella trasformazione di cui parlavo prima, che ci insegnano in primis i genitori che perdono un figlio. Mi piacerebbe poter dire di essere sempre capace di farlo ma non è così, a volte la quotidianità è pesante e buia soprattutto quando la vita non dà il tempo per metabolizzare e si deve correre dietro agli eventi. Ho imparato a “costringermi” a fermarmi per respirare, fare silenzio e per concentrarmi sulle piccole cose quotidiane.

Qual è il suo angolino di conforto? O quale esperienza può rivitalizzare aree della mente provate da atmosfere emotive mortifere?

Ho dei luoghi del cuore: le montagne che frequento da quando sono nata, la campagna vicino a casa, una finestra di casa che si affaccia sugli alberi e sul cielo, mi piace lasciare andare la mente e immaginare che oltre gli alberi possa esserci il mare. Da qualche mese sto imparando a prendermi cura di una cucciola a quattro zampe ed è bello il mattino uscire con lei e osservare gli alberi in continuo cambiamento. Per lo più mi bastano cose semplici per liberare la mente e tornare a sorridere; camminare nel silenzio mi rigenera, ancora di più se riesco a farlo immersa nella natura.

Parallelamente la continuativa formazione professionale è ciò che mi consente di mantenere viva la mente e alleggerirla un poco dai carichi emotivi.

Sente Milano presente e soccorrevole in questa drammaticità della vita, oppure…

Sono innamorata della sobrietà e discrezione di Milano anche nel mostrare la propria bellezza e vicinanza. Svolgendo la mia professione in Vidas, sono testimone della generosità milanese che permette a me ed ai miei colleghi di portare avanti le numerose assistenze al domicilio e in Casa Sollievo Bimbi.

Credo che Milano abbia lavorato molto nell’imparare ad accogliere e credo che la sfida più grande sia continuare a lavorare nell’integrare. Incontriamo molte famiglie provenienti da Paesi meno fortunati che arrivano per le cure dei loro figli e che quotidianamente devono fare i conti con barriere linguistiche, culturali, economiche, abitative; probabilmente in questo ambito, c’è ancora molto da poter fare.

A proposito di angolini lenitivi, c’è qualche posto in città che sente come il suo posto dove rannicchiarsi e riprendere energia per vivere?

Quando riesco mi ritaglio una mezza giornata di cammino scoprendo con meraviglia qualche angolo nascosto della mia città. La domenica mattina è il mio momento preferito; percorrere Ripa di Porta Ticinese, arrivare alla darsena e proseguire per le basiliche (Sant'Eustorgio, San Lorenzo), quando la città si sta svegliando, è ultimamente uno dei miei itinerari lenitivi preferiti; tappe obbligate sono la colazione ai tavolini sul Naviglio e l’ingresso in una libreria.

(Articolo di Luisa Mariani e Giovanni Zaccherini).