Chi più in alto sale più lontano vede, chi più lontano vede più a lungo sogna. Diceva Walter Bonatti, grandissimo alpinista ed esploratore.

Io forse non mi sarò spinto molto in alto ma sicuramente ho lanciato lo sguardo abbastanza lontano per non smettere mai di sognare.

A trent’anni, nel 1990, ero a Sulawesi e per chi non rammenta il precedente capitolo di questo racconto di viaggio o per chi semplicemente non lo ha mai letto, ricordo che il filo della memoria si era interrotto nella terra delle genti Toraja dove avevo assistito a bizzarri riti funerari e a truculente ecatombi sulla cui tanto esecrata crudeltà nulla da eccepire, sono davvero mattanze difficili da digerire per il nostro occhio ingentilito dalla vita cittadina, ma non credo che avrebbero impressionato più di tanto un vecchio contadino delle nostre campagne.

Inoltre, a pensarci bene credo che non sia peggio, per un maiale o per un bufalo, venire macellato lì piuttosto che in un qualunque altro mattatoio del mondo civilizzato, con la non trascurabile differenza che prima, almeno, su quelle montagne, ha vissuto libero e sicuramente in modo più consono alla sua natura e non già impilato da vivo come un salame e ingrassato a forza, come nei nostri allevamenti intensivi.

Alla sera di quella incredibile giornata, gli amici di Robbi Tan, la mia guida indonesiana, che si erano rivelati totalmente inutili durante il giro nei villaggi Toraja, si resero invece utilissimi trovandoci nei dintorni un caldissimo ma ottimo ristorante “fusion” cino-indonesiano” e un piccolo “losmen”, che vuol dire pensione, piccolo albergo, insomma l’equivalente di un motel, pulito ed accogliente e che in seguito rimpiangerò assai.

Il giorno seguente partimmo di buon’ora, come al solito: io alla guida del fuoristrada, raggiante ed entusiasta e Robby ancora mezzo addormentato e amabilmente inutile come sempre. D’altronde oramai eravamo buoni amici e piuttosto che sostenere con lui le interminabili discussioni nel mio goffo inglese, preferivo che se ne stesse buono a dormicchiare nel sedile di fianco, quello alla mia sinistra poiché in Indonesia, come in UK, il volante è a destra, tanto per complicare una guida già difficilissima per il traffico demenziale delle città, per i più bizzarri personaggi che ti si parano davanti attraversandoti la strada ad ogni incrocio come se non ci fosse un domani e per gli animali di qualsiasi specie, dai bufali agli elefanti, dai pitoni ai pavoni che usualmente amano riposare in mezzo alla strada, specie dietro una bella curva cieca.

La nostra meta era la regione selvaggia del lago Poso, nel profondo cuore verde di Sulawesi. La strada che da Rantepao, capoluogo della regione Toraja, conduce a Palopo, sul golfo di Bone, antica capitale del regno di Luwu, si inerpica per alcuni chilometri tra villaggi e terrazzamenti coltivati a risaie, fino ad un fresco valico montano, qui la strada, asfaltata non più di tre anni prima per il passaggio del Camel Trophy e ancora in ottime condizioni (anche se la morsa della vegetazione aveva già iniziato a stringerla d’assedio), improvvisamente lascia indietro il sereno paesaggio agricolo pastorale della regione Toraja e si immerge, valicato il passo, in un altro mondo da sogno di vergini foreste montane ammantate di nebbie che si estendono a perdita d’occhio senza alcuna traccia di presenza umana se si eccettua l’improbabile nastro nero d’asfalto che serpeggia tra il verde cangiante della selva nebulare. La foresta più stupefacente che avesse mai popolato i miei sogni mi si apriva davanti agli occhi nel suo tripudio di infinite sfumature di verde, da quello tenerissimo dei germogli di felce a quello così carico di clorofille da virare al blu di certi filodendri che si arrampicano sui tronchi colossali prima che questi si aprano ad ombrello oltre la volta arborea.

Bloccai la macchina in mezzo alla strada, tanto non passava nessuno, e seguito dallo sguardo ansioso di Robby, feci alcuni passi: suoni e profumi misteriosi inebriavano i miei sensi, fiori incredibili da epifite abbarbicate ad altre epifite a cascata da rami stillanti per la pioggia recente o per le nebbie che ammantavano le chiome degli alberi, mi si paravano di fronte come sipari per uno spettacolo di trascendente bellezza.

Prudentemente risalii in macchina e cercai una piazzola di sosta dove lasciare il mezzo con il mio compagno di viaggio che con aria preoccupata mi vide sparire nella selva.

In realtà non era necessario, oltre che imprudente, addentrarsi molto per immergersi in quell’incanto, d’altronde non c’era tempo e non avevo nulla per aprirmi un varco in quell’intrico di rampicanti e di liane. Da subito catturarono la mia attenzione orchidee dovunque, di ogni specie, alcune fiorite altre no, farfalle stranissime e insetti mai visti se non nei libri di esotiche collezioni, cominciai così a scattare foto con la mia vecchia Nikon che non mi abbandonava mai.

Sulla mia testa il sole meridiano dissolse le nebbie e tra voli di giganteschi Buceri e altri uccelli variopinti, l’azzurro del cielo ricomparve oltre la trama di palchi formidabili.

D’ora in avanti, nei territori del regno di Luwu, il più antico sultanato di quella che allora si chiamava Celebes, lungo la stupefacente pianura fiorita che tra le montagne più alte dell’isola ed il mare, conduce ai monti Peruhumpenal ed infine al lago Poso, quella meravigliosa foresta non mi lascerà più.

Con il variare dell’altitudine variavano anche le specie di fiori, le epifite ed i tipi di alberi su cui vivono, lungo le pareti di roccia vulcanica ai lati della strada, notai cascatelle di acqua cristallina su cui prosperava la Nepente, bellissima pianta carnivora.

Questa pianta, con i suoi ascidi maculati, profondi calici nel cui fondo una sostanza zuccherina attira gli insetti che poi non possono più uscirne perché intrappolati in essi da peli rivolti verso il basso che rendono impossibile la risalita, formava a sua volta cascate viventi tra gigantesche felci arboree, aspleni enormi in un paradiso di pteridofite da cui ti saresti aspettato veder uscire un dinosauro da un momento all’altro.

Poi, improvvisamente, dietro una curva ci appare molto più in basso, inondato dal sole il lago Poso come uno zaffiro intessuto su una trama di smeraldi.

La strada che scende dai monti Peruhumpenal fino a lambire il lago a Pendolo, per poi risalire fino a Tentena, diviene assai dissestata, evidentemente qui nessun Camel Trophy è mai passato per cui nessuno si prendeva la briga di mantenerla.

Passammo la notte sulle rive del lago in un bungalow assai spartano dove per la mia felicità e per il terrore di Robby le luci del campo, uniche in una tenebra a perdita d’occhio , sembravano attirare ogni sorta di insetti: giganteschi coleotteri del genere Dynastes con corna incredibili saettavano con il loro volo pesante contro i lampioni per cadere ai nostri piedi, eleganti cerambicidi dalle lunghe antenne seguivano lo stesso percorso per poi volare via nuovamente, e torme di falene alcune poco più grandi di moscerini altre grandi come tortore, volavano rumorosamente in un brusio che al mio povero amico non doveva piacere affatto, mentre a me, che adoro gli insetti, queste piccole meravigliose rutilanti gemme viventi, riempivano della stessa curiosità di un bimbo nel paese dei balocchi.

Al mattino, stanchi per opposti motivi: io perché non ero riuscito a dormire per l’interesse e l’entusiasmo che quella variopinta ronzante compagnia suscitava in me, Robby per il terrore che gli incuteva, viste le condizioni della strada decidiamo di tentare una via alternativa: la perimetrale che circonda il lago come un anello e che all’inizio non sembrava neanche tanto male.

Paesaggi lacustri di una serena bellezza scorrevano davanti a noi e capii perché lo chiamavano il “paradiso addormentato”.

Effettivamente il paesaggio del lago Poso ispirava una tale pace, un tale senso di panteistica appartenenza a tanta bellezza che lo spirito, in un lampo, abbracciava con un sorriso il sole sfolgorante, la luce sovrannaturale, le risaie, i contadini, i pescatori e le acque color zaffiro in un immenso attimo di totale pienezza, uno di quei rari momenti che divengono preziosi poiché costituiscono il senso stesso del nostro esistere.

Purtroppo, però le condizioni sempre peggiori della strada mi riportarono presto alla dura realtà e ci costrinsero a tornare sulla statale, malmessa ma almeno percorribile e seguiranno due giorni di viaggio tra la ormai familiare foresta del cuore verde di Sulawesi.

Durante quei giorni arrivammo a Palopo , antica capitale del regno di Luwu che, come già aveva notato James Brooke, il raja bianco di Sarawak negli anni Trenta del diciannovesimo secolo, si stentava a credere che fosse stata in passato potente capitale del più grande e antico sultanato di Celebes, punto nevralgico del commercio di spezie e tesori che quegli avventurieri come lui al soldo delle potenze coloniali europee tanto agognavano, infatti, anche al tempo del mio arrivo, non aveva nulla di rilevante se non una bella moschea e i soliti colorati mercati tropicali, qui però affollati di donne velate e uomini austeri poiché, se mai ce ne fossimo dimenticati, l’Indonesia era ed è il più grande Paese musulmano al mondo e qui l’Islam permea ogni aspetto culturale e religioso.

E infatti poco dopo il gracchiante, nasale cachinno del muezzin (che cinque volte al giorno chiama i fedeli alla preghiera dal minareto della moschea bianca e verde di Palopo), mi risuonò dolce e familiare perché in un paese così bello, ma nuovo ed esotico per me che ero al primo viaggio in estremo oriente, quel suono che invece avevo sempre sentito, “l’Adan” che in ogni Paese che venera il Misericordioso inizia con la stessa invocazione, mi riportò di colpo alle mie prime avventure, ai miei primi viaggi.

Quell’“Allah Akbar” che apre il richiamo alla preghiera l’avevo sentito salmodiare dal maestoso minareto di Koutubia, nella luce abbagliante del sole di Marrakech nel mio primo viaggio in Marocco a diciotto anni, o pochi anni dopo dagli svettanti minareti della Moschea blu a Istambul, tra le grida dei gabbiani nel fulgore del sole che tramonta sul Bosforo e mi riempì di commozione come se in un Paese straniero qualcuno mi avesse chiamato con il soprannome con cui da bambino mi chiamava mia madre, come avessi risentito il suono di quel Mediterraneo lontano che era, che è la mia casa, un dolce ricordo della mia giovinezza che non molti anni dopo, i tristissimi eventi che portarono all’11 settembre e al regno del terrore di al Qaeda e dell’Isis sono riusciti, poco a poco, ad offuscare forse per sempre.

Ma il tempo corre, la prima parte del mio viaggio nel verde cuore di Sulawesi volgeva al termine, era il momento di tornare alla capitale per riportare a casa Robby e proseguire, questa volta solo davvero, verso i giardini di Corallo di Bunaken, manciata di isole tra il Mare di Celebes e il Mare delle Molucche.