Proteso dagli scogli, simile ad un mostro in agguato, con i suoi cento arti, il trabocco aveva un aspetto formidabile… La lunga e pertinace lotta contro la furia e l’insidia del flutto pareva scritta su la gran carcassa per mezzo di quei nodi, di quei chiodi, di quegli ordigni. La macchina pareva vivere d’una vita propria, avere un’aria e una effigie di corpo animato.

(Gabriele D’Annunzio, Il trionfo della morte)

Come lunghe braccia protese verso il mare aperto in attesa di un ritorno, così le antenne dei trabocchi, con le loro bianche reti a bilancia stese al sole, sembrano aspettare l’arrivo di banchi di pesce. Ad ancorarli alla terra ferma, incerte passerelle di legno. Per secoli, le risorse ittiche hanno costituito il principale sostentamento per una popolazione di pescatori-agricoltori stanziata lungo la costa che dal Sud dell’Abruzzo si estende verso il Nord della Puglia, stretta tra l’azzurro mare Adriatico e la catena montuosa della Majella. Uno scenario da cartolina intervallato da campi di grano, uliveti e vigneti.

Sorretti da tronchi di legno conficcati nella sabbia del fondale e ancorati alle rocce della riva con pali e corde, queste poderose e antiche macchine da pesca fronteggiano le mareggiate dell’Adriatico meridionale. La loro lunga storia affonda, è proprio il caso di dirlo, nella prima metà del 1600, anche se alcune testimonianze le vorrebbero a guardia della costa già fin dal 1200, e riemerge ai nostri giorni definendo, con la loro presenza, un intero sistema paesistico denominato “Costa dei trabocchi”, in attesa del riconoscimento di status di Parco nazionale. Nei 60 chilometri di costa abruzzese che si estendono da Francavilla a San Salvo, se ne contano circa 30. Alcuni se ne trovano anche lungo le coste molisane e pugliesi. Altri nelle zone di Latina, Ravenna e nella costa più a nord dell’Abruzzo.

Ma la loro storia inizia da qui, da San Vito Chietino e dalla costa frentana. Ed è una storia fatta di gloria e dimenticanza, di distruzione e ricostruzione. In seguito ad un violento terremoto e al successivo maremoto del 1627 che scosse questo territorio facendo contare numerose vittime, la costa restò orfana di popolazione. Come racconta Pietro Cupido nel libro Trabocchi, traboccanti e briganti, alcune famiglie di esuli di origine ebraica provenienti dal centro Europa provarono a insediarsi in questi luoghi che, per gli autoctoni, erano considerati oramai inospitali. Le famiglie di artigiani come i Verì e gli Annecchini, arrivate a San Vito Chietino, non avevano confidenza con il mare e la pesca. Dapprima, quindi, iniziarono ad esplorare la pescosità del luogo utilizzando la fiocina e protendendosi verso il mare aperto stendendo tronchi tra uno scoglio e l’altro.

In bilico davanti al profondo blu cercarono di diventare pescatori e capirono presto che quel mare ricco poteva essere fonte di vero sostentamento. Allora, presa maggiore confidenza con l’Adriatico, iniziarono a costruire rudimentali palafitte a cui appesero le prime reti dando vita a opere di architettura spontanea che diventarono anche abitazioni per chi non aveva niente. Grazie ad un territorio caratterizzato dalla presenza di spiagge sabbiose, interrotte da alti promontori rocciosi che si tuffano a capofitto nel mare portando con sé strascichi di rocce, le famiglie di piccoli pescatori realizzarono palafitte sempre più complesse, con verricelli ed argani, per muovere le reti diventando maestri nella realizzazione dei trabocchi che provarono ad esportare anche in altre regioni italiane dove vennero realizzati ma non in mare così lontani dalla riva.

Da allora sono passati secoli. Dei trabocchi originali restano solo alcuni esemplari, parte dei quali recuperati e restaurati dai traboccanti, così si chiamano i proprietari-manutentori di queste macchine da pesca cantate anche da Gabriele D’Annunzio che li descrisse nel Trionfo della morte, romanzo del 1894.

Durante gli anni i trabocchi hanno vissuto vicende alterne. Distrutti durante la Seconda guerra mondiale, combattuta in maniera feroce in questa zona dove Ortona, pagando con il sangue di 1314 civili il prezzo dell’odio, si è guadagnata, suo malgrado, l’appellativo di Stalingrado d’Italia, buttati giù negli anni ‘60 del secolo scorso perché ritenuti d’intralcio alla navigazione, oggi i trabocchi vivono una nuova giovinezza diventando punto di forza per un territorio che ha nella biodiversità e nella ricchezza di scenari la sua forza. Con la pista ciclabile che si sta sviluppando tra il mare e le colline lungo il vecchio tracciato ferroviario in dismissione, la Costa dei trabocchi si presta ad essere il volano di un’economia che cerca la sua rinascita puntando su un turismo ecosostenibile e attento alle esigenze della natura che qui mostra tutti i suoi colori. Dall’azzurro scuro dell’Adriatico, passando per il giallo delle ginestre della macchia Mediterranea al rosso vivo dei papaveri che punteggiano i campi fino ad arrivare al bianco in lontananza delle cime ancora innevate della Majella.

Il futuro delle antiche macchine da pesca sembra essere nella ristorazione. Trasformati in luoghi di convivialità, i trabocchi riguadagnano la loro centralità inventandosi un nuovo ruolo e creando un sistema turistico che premia anche le attività lungo la costa. I traboccanti continuano a calare le reti in mare ma la pescosità di questi luoghi è notevolmente diminuita come si registra anche in altre parti del mondo. E allora come reinventarsi? La magia è nel regalare ai visitatori la possibilità di un pranzo o di una cena sospesi sul profondo blu, gustando quelli che sono i piatti tipici della ristorazione locale come il brodetto alla vastese o seppie e piselli. Il tutto innaffiato da vini autoctoni e soprattutto accompagnati dall’incessante colonna sonora della risacca del mare che accompagnerà chiunque voglia venire qui, dove l’ingegnosità di famiglie in cerca di una casa ha incontrato il mare lasciando ai posteri un tesoro che racconta la storia di un intero territorio.