Sull’eterno conflitto israelo-palestinese la verità assoluta non esiste, anzi ne esistono almeno due, a seconda se chi la racconta è un filo-israeliano o un filo-palestinese.

Ognuno poi fornisce delle ragionevoli e convincenti spiegazioni che trovano l’accoglienza da una parte o dall’altra non sempre per un reale convincimento, ma talvolta anche per la poca conoscenza dei fatti di chi ascolta o per opportunità e altre volte per malafede di chi le racconta. Infatti, su tale argomento scottante, credo che sia veramente difficile essere obiettivi, perché chi scrive, ammesso che scriva in buona fede, è probabilmente spinto da stimoli interiori che risentono delle sue tendenze ideologiche, politiche e anche religiose.

Tranne rare eccezioni e sempre che non ci siano motivazioni prettamente politico-partitiche, non è facile trovare un ebreo che giustifichi le azioni dei palestinesi e condanni quelle israeliane e viceversa.

Ho potuto constatare direttamente che quasi sempre l’esternazione dei propri sentimenti su tale argomento è fortemente condizionata per gli ebrei più dalla loro adesione politico-partitica che dal loro credo religioso, mentre per i musulmani soprattutto dal loro credo religioso. Dietro gli aspetti partitici e religiosi si muovono anche gli aspetti economici da parte degli Stati che ufficialmente parteggiano per Israele o per la Palestina. Si crea così un coacervo di interessi per i quali sono spesso travalicati tutti i limiti plausibili per il rispetto dei diritti umani.

E non sarebbe produttiva, a mio avviso, la ricerca della verità sulle responsabilità del conflitto solo attraverso l’analisi storica degli avvenimenti, soprattutto per le continue inadempienze da parte dei due Stati alle promesse reciprocamente sottoscritte nei circa 70 anni trascorsi dalla fondazione dello Stato di Israele.

Bisognerebbe piuttosto capire se, allo stato attuale, ci sono ancora le reali possibilità per una pace prossima e duratura che possa vedere i due popoli progredire in piena armonia e da buoni vicini di casa o se tale speranza è un’utopia. Di seguito sono esposte, ancorché sinteticamente, le attuali principali cause del loro costante dissenso.

La continua crescita di nuovi insediamenti israeliani

Una causa del conflitto è certamente dovuta ai continui nuovi insediamenti edilizi israeliani, spesso allocati in aree, già popolate prevalentemente da palestinesi, che sono oggetto di contestazione in quanto, a detta dei palestinesi, non rientrano tra quelle che sono state destinate dalla comunità internazionale al nuovo Stato di Israele.

Tali crescenti insediamenti, a prescindere dalla corretta o errata interpretazione sulla loro legittimità assunta dalle due popolazioni, sono stati certamente tra le cause che hanno provocato gravi sommosse e fornito una giustificazione, ancorché chiaramente non credibile, a cruenti atti terroristici.

La costante espansione territoriale d’Israele, a scapito del territorio della Palestina, è un’espansione che, ancorché apparentemente condivisa dalla maggioranza degli Stati del mondo, non credo possa facilmente trovare una rassegnata accettazione da parte del popolo palestinese.

Sono spesso descritti gli atti di guerra tra queste popolazioni, ma raramente viene esaltato l’alto potenziale di sviluppo economico e sociale che potrebbe essere raggiunto cooperando assieme con una adeguata programmazione territoriale. Una programmazione prioritariamente condivisa dai due Stati stessi, senza atti di prevaricazione e di espansione forzata da parte di Israele e con la Palestina in grado di accettare i livelli di sviluppo raggiunti da Israele, potendone anche fruire per un miglioramento del proprio stato sociale.

A tal proposito ricordo con piacere quanto ha detto il mio amico e famoso scrittore israeliano Sami Michael1 in un’intervista rilasciata al giornalista David Frati nella quale alla domanda “Perché in Palestina si guardano sempre troppo spesso le differenze tra i popoli e non si vedono quasi mai invece le somiglianze?” così rispondeva:

In un lungo conflitto come quello tra palestinesi e israeliani avviene qualcosa che accade quando a litigare è una coppia, una famiglia. Ci si dimentica dell’altro, delle virtù dell’altro, delle ore d’amore, di felicità, viene a mancare l’attenzione per l’altro e l’unica cosa che si ricorda sono le parti negative. Così è oggi per i due popoli, ognuno dei quali vede solo la parte più meschina dell’altro e decide di dipingerlo come un mostro.

È un pensiero che esprime egregiamente gli alti ideali di questo famoso scrittore, sempre guidati da una particolare stella, con l’obiettivo di seminare azioni di pace tra questi popoli in eterna lotta tra loro.

È indispensabile porre un limite a questa espansione, per non far sentire il popolo palestinese relegato entro confini che sembrerebbero delimitare delle modeste isole abitate all’interno dello Stato di Israele, isole nelle quali è spesso presente anche parte della popolazione ebraica.

Lo sfratto di palestinesi

Altra causa che ha scatenato il recente conflitto tra israeliani e palestinesi è stata certamente il tentato sfatto di alcune famiglie palestinesi che abitavano nel quartiere di Sheikh Jarrah sin dal lontano conflitto del 1948, quando molti palestinesi furono trasferiti in quel quartiere, sito nella parte est di Gerusalemme, che a quella data era della Giordania. Lo sfratto è stato promosso da alcune famiglie israeliane che ritengono le abitazioni di loro proprietà, ma su tale sfratto non si è ancora pronunciato in maniera definitiva il Tribunale. Un’azione comunque poco opportuna, soprattutto in un periodo storico così difficile e travagliato, che ha mosso gli animi del mondo intero per le modalità in cui stava per essere attuata e sulla cui legittimità deciderà il Tribunale, con l’augurio che il governo israeliano trovi una soluzione accettabile tra le parti.

L’accorpamento della Città Santa

Ulteriore elemento, di non minore importanza, che ha certamente alimentato le contestazioni tra israeliani e palestinesi, con forti critiche internazionali mosse soprattutto dagli aderenti alle religioni abramitiche, è stato ed è ancora il totale controllo della città antica da parte dello Stato di Israele.

I tentativi di fare diventare Gerusalemme solo israeliana o solo palestinese mi sembrano a volte delle vere provocazioni promosse ora dall’una ora dall’altra parte, con fini non certo miranti al raggiungimento di uno stato di pace tra le due popolazioni. Sembra uno dei pretesti per potere evitare il “pericolo della pace”, perché talvolta sembra che la pace non sia realmente desiderata da tutti.

E anche se fossero raggiunti accordi di cooperazione tra Israele e tutti i Paesi arabi, cosa ben auspicabile e in parte già attuata, alcuni attivisti islamici, questi in maniera ben visibile, troverebbero sempre il momento e l’occasione per un “ritorno di fiamma” con motivazioni prevalentemente religiose, poiché all’interno della città antica sono presenti monumenti sacri per le tre grandi religioni monoteiste tra cui il Muro del pianto, la Basilica del Santo Sepolcro e la grande e antichissima Moschea al-Aqsā, che cito solo a titolo ad esempio.

La possibilità di una pacifica coesistenza probabilmente stimolerebbe un maggiore controllo sugli atti terroristici, soprattutto se tale controllo viene attuato dalla stessa popolazione arabo-musulmana, così come già sta avvenendo in altri Paesi, ad esempio, negli Emirati Arabi Uniti.

Ipotesi per una auspicabile risoluzione dell’eterno conflitto

Le motivazioni di dissenso menzionate vengono poi utilizzate mescolate ad aspetti di politica internazionale con l’intromissione nell’ambito delle trattative, ufficialmente o ufficiosamente, di diversi Stati, il cui reale interesse non è certamente la pace, quanto gli aspetti economici che deriverebbero dalla pace o dalla sua mancata attuazione e la crescita del proprio potere politico, sia nell’ambito del mondo musulmano, che di quello ebraico e cristiano.

Nessun trattato di pace tra questi due popoli è stato mai totalmente rispettato, ma allora è lecito chiedersi a cosa servono questi accordi internazionali se di volta in volta vengono poi disattesi con gravi ripercussioni sui diritti umani e in particolare sul diritto alla vita e sul rispetto della dignità umana?

A mio avviso non è opportuno tentare di inquadrare gli eventi sotto una lente partitica, sia essa laburista che conservatrice, perché ciò sarebbe fuorviante, infatti, troveremo sempre una adeguata giustificazione, per ogni azione offensiva, da parte di chi è stato il promotore di tale azione sia esso di ideologia laburista che conservatrice.

Ora, se guardiamo la situazione israelo-palestinese con grandi lenti dotate di particolari filtri che riescano a offuscare l’ipotesi di eliminazione del conflitto si potrebbe poggiare su due importanti capisaldi banali apparenze che spesso ci vengono inculcate con i media e mettano in risalto lo stato di vita attuale delle due popolazioni, forse potremmo capire qualcosa in più.

Da una parte c’è il popolo d’Israele che si ritiene legittimato, per la sua storia antica e moderna, a potere abitare in territori che richiamano le sue origini, ma che vive sotto il costante terrore di potenziali attacchi terroristici.

Dall’altra parte c’è il popolo della Palestina, sicuramente con una situazione economica fortemente inferiore rispetto il popolo d’Israele, che afferma che gli è stato tolto un territorio di loro atavica appartenenza e che vanta di possedere sullo stesso territorio diritti maggiori di quelli vantati dallo Stato di Israele.

Brevemente, e per quanto sopra esposto:

  • la creazione dei due Stati con una compatibile divisione del territorio e una loro reale cooperazione;
  • una struttura governativa autonoma, governata dai due Stati, per la città antica.

Due Stati cooperanti coabitati da ebrei e musulmani

Per ipotizzare per quanto di seguito evidenziato una divisione compatibile per i due Stati, ottenendo l’unione dalla loro frammentazione, occorre partire dalla situazione attuale, senza ulteriori sfratti e occupazione di nuovi territori che cancellerebbero qualunque futura prospettiva di pace.

La situazione attuale si presta, invece, ad una divisione dei territori con la copresenza delle popolazioni ebraiche, musulmane e di altre religioni.

Israele è destinato ad essere abitato anche da popoli professanti altre religioni, come di fatto oggi avviene. Israele ha oggi una cospicua presenza araba che nei prossimi anni e verosimile prevedere che possa aumentare. Ma se in Israele si desidera realmente raggiungere un periodo di pace stabile e duratura gli ebrei dovranno necessariamente convivere con arabi musulmani, così come oggi avviene in tutti i maggiori Stati occidentali, e assieme potranno progredire perché la pace è certamente foriera di progresso.

La soluzione potrebbe essere dunque la suddivisione del territorio in due Stati che, a differenza di altre soluzioni già prospettate, contempli la contemporanea presenza promiscua di arabi musulmani e ebrei israeliani che riconoscano al loro interno la reciproca accettazione della convivenza con sicuri benefici per le rispettive popolazioni. Sarebbero così compatibili le costruzioni di ulteriori insediamenti da parte di ebrei in territorio palestinese e viceversa, come avviene in tutto il mondo. Non sarebbe neanche scandaloso che una famiglia ebraica possa avere la doppia cittadinanza israeliana e palestinese e viceversa se ciò potrebbe ritornare utile per le rispettive attività economiche.

Potrebbe sembrare una proposta fantasiosa e, comunque, di difficile accettazione, ma in realtà così non è, perché sarebbero soddisfatte le esigenze dei due popoli e si otterrebbero dei territori ampi e concordati idonei ad ospitare comunità ebraiche e musulmane oggi sparse a macchia di leopardo. Inoltre i due Paesi limitrofi e in buona armonia e coabitati da ebrei e musulmani potrebbero sinergicamente realizzare in comune accordo delle idonee infrastrutture e attrezzature per migliorare la qualità della vita anche della popolazione palestinese e non dovrebbero più temere atti di terrorismo.

Le future azioni porterebbero più alla stabilizzazione di una equilibrata dimensione territoriale compatibile per un corretto sviluppo della Palestina. Solo così sarebbe possibile avviare una corretta cooperazione attraverso la quale la Palestina possa essere aiutata a riorganizzare il proprio Stato per il raggiungimento di una vera democrazia, per il miglioramento della propria struttura sanitaria e della pubblica istruzione, dei trasporti e di quanto necessario per il miglioramento della propria capacità produttiva interna e la propria difesa democratica, anche attraverso la formazione di un proprio esercito ufficiale e con la condanna di qualunque associazione paramilitare che facilmente potrebbe poi sfociare in atti terroristici. Ci sarebbe un grande reciproco beneficio.

La repubblica della “Città Santa”

Non bisogna nello stesso tempo dimenticare che in Israele e in particolare in Gerusalemme convivono da secoli gli aderenti a religioni abramitiche, religioni che trovano, nell’ambito della città sacra, tutti i loro più importanti riferimenti religiosi e che si sentono da sempre appartenenti alla vecchia Gerusalemme. E pur con questa promiscua presenza sembra proprio che la “Città Antica” o “Città Sacra” non sembra abbia mai sofferto di problemi economici.

Ricordo nei miei viaggi in Israele e Palestina la pacifica convivenza di ebrei, cristiani e musulmani nella gestione delle attività commerciali all’interno della Città Santa e ricordo che su tale argomento il mio caro amico Moshé Lerner2 mi disse:

Vedi la città antica è suddivisa in zone: il quartiere ebraico, quello musulmano, quello cristiano e quello armeno. Attraverso la stessa strada si passa da un quartiere all’altro. In ogni quartiere ci sono attività commerciali, soprattutto a scopo turistico, con vendita di prodotti artigianali che identificano soprattutto la popolazione che vi abita. Ebbene, difficilmente ci sono scontri all’interno della città antica, perché allontanerebbero i turisti e farebbero crollare gli affari a tutti i commercianti a qualunque religione aderiscano.

Dunque, ancora una volta è confermato che l’aspetto economico rappresenta un buon legame per convivere in pace.

Forse sarebbe auspicabile che la città di Gerusalemme antica, per la sua posizione geografica, diventasse uno Stato autonomo di piccolissima dimensione, com’è la Repubblica di San Marino o la città del Vaticano, con abitanti delle diverse religioni e con un governo gestito da aderenti ufficiali alle religioni abramitiche. Renderla, in definitiva, quasi una piccola città “offshore”. Ciò aumenterebbe anche la sicurezza nella fruizione della città, con una forte espansione delle attività commerciali che da sempre sono gestite da aderenti alle religioni abramitiche.

Potrebbe diventare un piccolo Stato all’interno dei due Stati, governato con uno statuto speciale promosso e condiviso tra i due Stati e condiviso a livello internazionale. Sarebbero così soddisfatte tutte le esigenze religiose e i benefici economici e sociali che ne deriverebbero sarebbero frutto di una armonica partecipazione degli abitanti, a prescindere dalla loro appartenenza religiosa. L’armoniosa convivenza incrementerebbe certamente le attività economiche che potrebbero diventare il vero stimolo per il mantenimento di una pace duratura in quel martoriato territorio.

È utopistico immaginare la realizzazione di queste due ipotesi?

Così come arabi musulmani sono abitanti di Gerusalemme e fanno parte del popolo israeliano ed ivi vivono come musulmani esercitando le loro attività lavorative fianco a fianco con gli ebrei israeliani, perché allo stesso modo non si dovrebbe pensare ad uno Stato di Palestina individuato con un territorio abitato da ebrei, da palestinesi, da cristiani e comunque da popoli di qualunque credo religioso che possano convivere e assieme produrre per la crescita sociali ed economica del loro territorio?

E perché dovrebbe essere irrealizzabile la Repubblica della Città Santa?

Amu Ayalon, che è stato il Comandante della Marina Militare israeliana e direttore dei Servizi Segreti israeliani, in un’intervista video del 14 maggio 2021, rilasciata a “Le Iene” di Mediaset, ha confermato la necessità di porre fine all’espansione delle colonie israeliane, bloccando l’espansione nella parte araba al di là della parte Est del muro, dando la seguente indicazione sull’auspicabile futuro governo della città:

Gerusalemme: quartieri ebraici sotto il controllo israeliano, quartieri arabi sotto il controllo palestinese e la “Città Santa” e i luoghi sacri sottoposti a un regime speciale.

Questa affermazione di una importante personalità israeliana è in parte in sintonia con le ipotesi sopra evidenziate, basterebbe fare rientrare nella delimitazione del territorio da porre “sotto il controllo palestinese” la parte ad est della Città Santa e suddividere il restante territorio tra i due Stati creando le reali condizioni di coabitazione perché i due popoli nei due Stati così formati possano poi produrre in piena armonia tra essi.

E se la Palestina firmasse gli “Accordi di Abramo” potrebbe “scoppiare la pace”?

Per dare il via alla realizzazione di un programma così complesso e ambizioso, si potrebbe ipotizzare una concordata sottoscrizione, anche da parte della Palestina, degli “Accordi di Abramo” con il riconoscimento da parte della Palestina dello Stato d’Israele con condizioni di piena reciprocità.

Non vuole essere questa un’idea provocatrice, ma un’idea foriera di un vento di pace. Si, un vento di pace, perché così come hanno posto delle condizioni pro-Palestina gli Stati musulmani che hanno già sottoscritto tali accordi, perché lo stesso accordo non potrebbe essere proposto anche alla stessa Palestina e all’accettazione del mondo arabo prima e quello occidentale dopo?

Si tratterebbe solo di chiarire preliminarmente quali condizioni potrebbero essere accettate dai due popoli e dal mondo intero perché questo accordo si tramuti poi in reale cooperazione.

Se l’accordo deve avere la valenza dei precedenti accordi, meglio non sottoscriverlo, perché potrebbe acuire gli animi dei due popoli ormai poco fiduciosi sulla reale possibilità di una convivenza pacifica.

Dopo avere riflettuto sulla reale possibilità che tale sogno si potesse avverare, mi sono chiesto: ma chi eventualmente dovrebbe renderlo irrealizzabile? Forse quanti percepirebbero in tale processo il pericolo di vedere realmente “scoppiare la pace” e non potere più realizzare i loro diabolici “affari”, talvolta giustificati da finte azioni buone, ma che in realtà nulla hanno in comune con la pace tra i popoli.

Note

1 Sami Michael, presidente onorario dell'Associazione israeliana per i diritti umani, già candidato al Nobel per la Letteratura, è uno scrittore iracheno naturalizzato israeliano, nato a Baghdad nel 1926 che vive a Haifa.
2 Moshé Lerner nacque a Haifa nel 1926 da genitori ebrei della Galizia, già entrata a far parte della Polonia e oggi Cecenia, di famiglia ebrea ashkenazita. Il papà era un ingegnere elettrotecnico e nel 1925, periodo che in Europa si sentiva già nell’aria una forte pressione verso gli ebrei, poiché dirigeva dei lavori in Medio Oriente, ben intuendo.