Dopo il diploma ha seguito una scuola triennale di Terapista della Riabilitazione presso la Nostra Famiglia Bosisio Parini, ha poi ho frequentato la Scuola triennale di Terapista psicomotoria presso il Centro studi di Psicomotricità e Psicoterapia infantile del Dr. Roberto Russo, conseguendo in seguito la laurea in terapia della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva presso l’Università Bicocca.

Attualmente svolge la libera professione presso il suo studio sito in Milano. È consulente presso NICU fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico. Qui svolge un’attività diagnostica all’interno di un programma di ricerca.

È coautrice di articoli di ricerca scientifica pubblicati su riviste internazionali.

Sono nata in una famiglia dove eravamo quattro sorelle, ricordo le nostre voci quando giocavamo, i colori e i profumi del quotidiano che ci circondavano. In casa eravamo in tanti, oltre a noi quattro e ai miei genitori c’era la nonna saggia e affettuosa, figura importante nella mia crescita. La perdita di mia madre e, dopo pochi anni, una grave malattia che ha colpito mio padre, hanno segnato le mie scelte di vita.

A causa della malattia di mio padre mi sono avvicinata al mondo della riabilitazione e ne sono rimasta profondamente affascinata. Io allora ero una ragazzina e quello che riuscivo a percepire era che attraverso una serie di “esercizi” il corpo di mio padre, che sembrava aver perso ogni capacità di movimento, riprendeva a svolgere il suo compito.

Tutto questo ai miei occhi sembrava magico. Così dopo il diploma mi sono iscritta alla scuola di Fisioterapia.

E la curiosità per la psicomotricità? Come si è sviluppato il tuo percorso di formazione?

Solo dopo alcuni anni di lavoro come fisioterapista in una struttura per bambini piccoli, mi sono avvicinata alla terapia psicomotoria. Ho ripreso gli studi iscrivendomi alla scuola di psicomotricità triennale del Dott. Russo e in seguito conseguendone la laurea.

Il corpo e la psiche sono contenuti nel termine "psicomotricità".

Nei miei primi anni di lavoro come fisioterapista ho avuto la fortuna di lavorare con un gruppo di professionisti molto appassionati. Insieme studiavamo, discutevamo dei casi e il nostro desiderio di conoscenza era molto forte. In quegli anni mi ponevo spesso una domanda, “perché bambini che, malgrado le loro difficoltà, riuscivano ad acquisire competenze motorie e ad utilizzarle nella stanza di terapia non riuscissero ad utilizzarle in famiglia”.

La risposta che mi diedi fu che questi bambini avevano acquisito una competenza motoria ma non avevano maturato un desiderio di autonomia che potesse sostenere la fatica nell’esercitare la loro conquista. I genitori, spesso stanchi e sfiduciati, non riuscivano ad accompagnarli in questo percorso così difficile. Mi dissi che forse si poteva aiutarli integrando all’aspetto motorio anche l’aspetto emotivo, ecco perché scelsi allora di continuare gli studi iscrivendomi ad una scuola di psicomotricità.

Di cosa si occupa allora la psicomotricità? E di chi si occupa? Spesso questo approccio di cura non si conosce o se ne ha un'idea piuttosto confusa.

La psicomotricità è una disciplina poco conosciuta nella sua specificità, tutti sanno più o meno di cosa si tratta ma pochi conoscono la complessità e la ricchezza di questo lavoro. La psicomotricità prende in considerazione la globalità dell’individuo riferendosi prima di tutto alla sua unità psicosomatica. Il bambino piccolo si esprime e apprende attraverso il movimento, l’azione che manifesta è in stretta correlazione con il suo mondo emotivo, i suoi desideri, la sua capacità comunicativa e cognitiva.

Quindi quale è il compito dello psicomotricista? In pratica che cosa fa?

Il compito dello psicomotricista è quello di far evolvere lo sviluppo e le capacità simboliche del bambino portandolo da un livello di espressione corporea ad un livello di mentalizzazione dove le emozioni e i pensieri si possano esprimere attraverso la narrazione e la verbalizzazione.

Ci sono fasce di età privilegiate?

Penso che l’intervento psicomotorio sia molto utile nel bambino fino agli 8/9 anni, comunque fino a quando il pensiero non sostituisce l’agito. Allora si potranno adottare interventi terapeutici più mirati negli aspetti psicologici.

Ma allora lo psicomotricista potrebbe essere considerato uno psicoterapeuta?

La formazione dello psicomotricista post laurea non prevede obblighi legati ad una formazione personale analitica. Io però penso sia indispensabile un percorso di conoscenza di se stessi per poter svolgere al meglio questa professione.

Questa, dunque, è stata una tua scelta formativa scaturita da un interesse personale attivato dall'esperienza di pratica psicomotoria che vivevi nel campo.

La mia formazione si è articolata a più livelli: formazione personale che comprende un’analisi individuale, un lavoro di vissuto corporeo, formazione teorica, una conoscenza dello sviluppo cognitivo e supervisione clinica. Sono certa che senza questo bagaglio formativo sarei meno capace di comprendere e rielaborare i contenuti emotivi e le difficoltà dello sviluppo che i piccoli pazienti portano in terapia.

Quando le persone si rivolgono a te? Come è concepita usulamente la psicomotricità?

I genitori si rivolgono al professionista della psicomotricità, nella maggior parte dei casi, dopo aver fatto una prima valutazione dal neuropsichiatra, il quale ha dato come indicazione di intraprendere un percorso di terapia psicomotoria. Le motivazioni all’invio possono essere molteplici, dai problemi di regolazione emotiva (disturbi del sonno, dell’alimentazione, stipsi), disturbi della relazione, instabilità e inibizione psicomotoria, ritardi psicomotori generalizzati ed altro.

Il rapporto coi genitori è un altro fattore significativo nella conduzione della terapia.

Il primo incontro avviene con i genitori, l’obiettivo è una conoscenza reciproca, raccogliere le loro preoccupazioni, le loro domande, stabilendo le basi per una alleanza terapeutica. Successivamente incontro il bambino in presenza di entrambi i genitori o con uno alla volta, questo dipende dalle situazioni che mi trovo ad affrontare.

Come è allestita una stanza di psicomotricità?

La stanza di terapia psicomotoria può sembrare una bella stanza per giocare. In realtà nulla è lasciato al caso, la scelta del materiale fa parte di un setting preciso. Sono presenti materiali destrutturati come cuscini di gommapiuma, corde, teli, tappeti, che nel percorso di terapia diventeranno lo scenario di luoghi immaginari legati alla narrazione del bambino. Potranno essere usati per esperienze senso motorie di puro piacere corporeo. Ci sono anche giochi più strutturati per sviluppare le competenze cognitive e rappresentative.

Ogni bambino può liberamente scegliere cosa fare e come farlo, può anche non fare nulla. Tutto ci darà indicazioni per capirlo e per poterci avvicinare al suo mondo emotivo.

È possibile raccontare una storia clinica o solo qualche stralcio o episodio che ti sembra utile per esemplificare quello che succede?

Racconto brevemente due momenti di percorso terapeutico con due bambini che presentano caratteristiche evolutive differenti tra loro.

P. è un bambino di cinque anni, viene inviato in terapia perché presenta una forte rigidità corporea, cammina sulle punte e ha spesso mal di testa. Non tollera la frustrazione ma non chiede aiuto. È un bambino molto competente e intelligente, tutte le sue produzioni devono essere perfette secondo una sua idea, altrimenti le distrugge.

Le sedute dei primi mesi sono state caratterizzate da incontri dove P. voleva utilizzare solo materiali strutturati e doveva sempre vincere, altrimenti diceva “la mia testa scoppia”.

Solo dopo alcuni mesi di terapia, quando ha sentito di potersi fidare di me, le sue attività di gioco sono diventate più creative e libere. Ha iniziato ad accettare giochi con la palla, percorsi con cuscini e altri materiali, ha cominciato a costruire scenari dove si ambientano le sue storie.

Attualmente è uno scoiattolo che vive su un albero costruito con i cuscini, non è più solo, chiede compagnia e aiuto alla scoiattolina che vive su un altro ramo. Insieme riescono a sconfiggere il lupo e ad ingannare il taglialegna che vorrebbe abbattere il loro albero.

Fisicamente sta meglio, non ha più mal di testa e progressivamente i suoi sintomi stanno diminuendo ma soprattutto, come dicono i suoi genitori, è un bambino che sta recuperando una dimensione giocosa. Il papà nell’ultimo incontro ha detto: “Finalmente è felice e gioca con piacere, sembra non avere più timore di perdere e questo gli permette di coinvolgersi in più situazioni”.

L. ora ha cinque anni ed ha una diagnosi di disturbo dello spettro autistico. I suoi genitori si sono rivolti a me due anni fa. Descrivevano il loro piccolo come un bambino molto angosciato, difficile da gestire nel quotidiano, la mamma diceva: “Non vuole mai uscire di casa e ogni cambiamento gli provoca forti crisi di pianto che durano anche ore.”

Non sapevano cosa fare, come comportarsi. L. comunicava solo con gesti, suoni e alcune parole. L. si è presentato al nostro primo incontro piangendo in braccio alla mamma, con la bocca occupata dal suo adorato ciuccio e contemporaneamente succhiava un pupazzo di stoffa dal quale non si separava mai.

Nei primi incontri ho potuto solo assistere ai suoi pianti ed empatizzare con il dolore e il senso di impotenza che la mamma mi trasmetteva. Nulla calmava L. e io sentivo di poter solo accettare e contenere le emozioni che L. e la sua mamma mi trasmettevano, senza farmi invadere a mia volta dall’angoscia. Dopo un paio di incontri dove nulla sembrava cambiare ho pensato di giocare simbolicamente sulla distanza tra me e lui.

Ho costruito con i cuscini di gommapiuma un muro, da una parte L. con la sua mamma seduti sulla loro poltrona e dall’altra io. La costruzione del muro è stata accettata bene da L. che, pur rimanendo in braccio alla mamma e usando sempre ciuccio e bubu, non piangeva più.

Il percorso è stato lungo ma il nostro muro ci ha permesso di avvicinarci e conoscerci prima attraverso i suoni, le parole e poi un giorno L. ha detto: “Dov’è Laura?". I cuscini si sono aperti permettendo un primo contatto tra me e lui, inizialmente molto delicato, le dita che si sfioravano, poi le mani che si intrecciavano e così via. Da molto tempo il muro tra noi non c’è più, L. arriva ai nostri incontri sorridente. È molto simpatico ed ironico. I suoi momenti di crisi sono diminuiti, il linguaggio è in buona evoluzione.

I genitori di L. sono meno affaticati nella gestione del quotidiano e più fiduciosi, ne riconoscono i progressi ma, soprattutto, si sentono più competenti nell’affrontare insieme i momenti di difficoltà.

È davvero commovente e stupefacente poter osservare in età così precoce quanto la relazione, gli aspetti emotivi influenzino i comportamenti sociali e il funzionamento del corpo e della mente. Così come è sempre sorprendente verificare come bonificando la relazione e ospitando i fantasmi del bambino, senza fretta di raggiungere obiettivi e senza paura di esserne sovrastati, si verifichino trasformazioni. Certo anche un buon accoglimento dei genitori con le loro ansie e le loro fatiche è un aspetto fondamentale della terapia. Si verifica un prendersi cura a tutto tondo, dei figli, ma anche dei genitori.

Il lavoro con i genitori è prezioso, sono i nostri migliori alleati nel percorso terapeutico, entrano nella stanza non come semplici osservatori ma prendono parte attivamente al percorso di terapia con il bambino. Non sempre l’alleanza è immediata, alcune volte si costruisce nel tempo faticosamente attraverso un clima di ascolto e accoglienza.

I genitori che arrivano alla consultazione sono spesso sofferenti, alcune volte arrabbiati, percorsi da un profondo senso di inadeguatezza. Chiedono il “Cosa possiamo fare?”, “Perché fa così?”, hanno bisogno di capire e avere strumenti per aiutare il loro piccolo. Coinvolgerli direttamente nel lavoro ci offre l’opportunità di mostrare un bambino più fiducioso, aiutandoli a comprendere il suo mondo emotivo e i suoi pensieri attraverso lo sguardo del terapeuta. Quando un genitore impara ad entrare nel gioco del suo bambino, ricco di aspetti simbolici, il gioco diventa canale relazionale.

Davvero è importante aiutarli a cambiare sguardo e a vedere il figlio con occhi diversi, con una disponibilità diversa.

Ricordo momenti in terapia che hanno attivato una vicinanza empatica tra genitori e il loro bambino che aveva un disturbo dello spettro autistico. Il piccolo aveva circa tre anni quando è arrivato in terapia ed era molto sofferente, manifestava tutta la sua confusione attraverso un comportamento fortemente aggressivo. Era difficile per i genitori assistere alle forti scene di rabbia che si manifestavano anche in terapia, ma con pazienza e molto lavoro le cose sono andate migliorando. Il papà era un noto professionista e accompagnava il bambino sempre vestito in giacca e cravatta. Giocava e partecipava sempre con una certa diffidenza, ma un giorno durante una seduta il figlio gli ha detto: “Papà giochi con me? Entra nella mia casa e balliamo”.

Il papà mi ha guardata e finalmente si è spogliato della sua uniforme davanti a noi, certo di potersi fidare ed essere accompagnato nel suo nuovo percorso. Da quel momento tutto è andato molto meglio; il papà è diventata una figura di riferimento importante e la mamma si è sentita più sostenuta nel percorso intrapreso.

Questo ci dice come spesso il problema del figlio riveli anche una difficoltà dei genitori. Pensiamo anche al loro narcisismo ferito nel realizzare le problematiche del figlio e allora forse occorre anche medicare quelle ferite lì. Lavoro complesso, ma anche molto coinvolgente.

Mi ritengo una persona fortunata poiché svolgo un lavoro che amo e mi appassiona profondamente. Il coinvolgimento emotivo è forte, qualche volta faticoso, come la responsabilità che sento quando viene affidato alle mie cure un piccolo paziente. Sono però ripagata da ogni fatica quando i bambini fanno nuove conquiste o quando si ricevono espressioni di gratitudine da parte dei genitori, come in una lettera scritta da questa mamma: “Venivo da lei con il mio fagottino così stanca e vinta, così mi sentivo. Mi ricordo le nostre sedute a quattro: e, lei, io e i dinosauri, mi si chiudevano gli occhi dalla stanchezza… pensavo ‘che brutta figura sto facendo….non riesco ad interagire con la mia bambina’. Invece Laura in questi anni mai, mai mi ha fatta sentire inadeguata o fuori posto, mi ha sempre ascoltata, accolto con un sorriso, un consiglio…”.

Davvero ripagante una risposta così grata, ma è anche illuminante rispetto all'importanza del non essere giudicanti, pronti a puntare il dito contro, ad evidenziare le macchie, mentre quello che conta è essere accoglienti e rispettosi. Da un atteggiamento mentale del sospetto quanto è profondamente trasformativo assumere un atteggiamento mentale di rispetto. Così si può costruire un buon contenitore che possa metabolizzare contenuti dolorosi e produrre cambiamento.

Grazie per queste testimonianze del tuo lavoro clinico. Ma le tue competenze si esplicano anche in altre aree.

Oltre alla mia esperienza lavorativa clinica, c'è un’area del mio lavoro legata alla prevenzione e cura, che svolgo all’interno di una équipe multidisciplinare presso il servizio di follow up del bambino prematuro in Regina Elena, Policlinico Milano. Le neuroscienze ci insegnano che la regolazione emotiva nel bambino nasce da un’integrazione e stimolazione tra le strutture neurologiche e gli aspetti interattivi con i caregiver. La regolazione ha, nella crescita del bambino, una ricaduta sullo sviluppo non solo emotivo ma anche cognitivo.

Qui entriamo nell'area delle esperienze primarie, siamo allo sbocciare della vita... dove psiche e soma sono particolarmente evidenti nella loro unitarietà e dove appare così significativo il rapporto del neonato con le figure genitoriali.

L’aspetto della prevenzione nella prima infanzia è importantissimo. È fondamentale accompagnare e sostenere i genitori nelle prime relazioni con il neonato. Questo permette la costruzione di un legame sicuro e uno sviluppo armonico del bambino. Anche nello studio The effects of an early developmental mother-chili intervention program on neuro development outcome in vero low birth weight infants: a pilot study. Early Human Development (2006, 82, 691-695) condotto presso il servizio di follow up nel quale collaboro, si evidenzia che un intervento sulla sintonizzazione emotiva tra i genitori e il neonato ha una ricaduta positiva sulla diminuzione dello stress genitoriale e favorisce lo sviluppo del bambino.

Dopo questa appassionante immersione nell'esperienza di relazione profonda tra psiche e corpo, usciamo dalla stanza di psicomotricità e incontriamo Milano. Cosa offre la città in questo senso?

Milano è una città che offre tanti servizi dedicati alla prima infanzia. I pediatri e gli educatori sono sempre più sensibilizzati nel cogliere i segnali che possono indicare una difficoltà nelle prime relazioni. Forse non basta informare o formare i genitori rispetto alle tappe della crescita “cosa deve sapere fare un bambino”, ma occorre qualcosa in più, occorre aiutarli e sostenerli nella costruzione di un legame. Questa potrebbe essere una bella sfida per chi sta in contatto con il mondo dell’infanzia.