Si dipana un po’ alla volta il mistero attorno al personaggio Reneée Vivien, poetessa simbolista che attinse, forse un po’ tardivamente, alla fonte visionaria e malata dei Fleurs du mal di Charles Baudelaire. Il merito è di una raccolta di lettere, 500 per l’esattezza, rese pubbliche grazie al lavoro certosino di Nelly Sanchez, dottore in lettere ed esperta di letteratura femminile del Novecento.

L’epistolario, Renée Vivien. Lettres inédites à Jean Charles-Brun (1900-1909), pubblicato dalle edizioni Mauconduit, è quello della poetessa di origine britannica, al secolo Pauline Mary Tarn, con il professore ellenista Jean Charles-Brun, poeta a sua volta tra i fautori del regionalismo francese dell’inizio del Novecento. Con lui Pauline intrattenne un rapporto professionale di revisione dei testi e di traduzioni dal greco antico, che si trasformò molto presto in un’autentica amicizia, un sodalizio di anime e di menti, che si interruppe solamente con la morte prematura di Renée Vivien, avvenuta alla giovane età di 32 anni il 18 novembre 1909.

La poetessa non nascose di amare le donne. Lo testimoniano le moltissime liriche dedicate alla bellezza femminile e che le valse il soprannome di Sapho 1900. Vivien ha rappresentato, durante il tempo in cui ha vissuto e operato tra il 1893 e il 1909, un vero e proprio modello femminile. Un modello che continua ad affiliare stuoli di ammiratrici e ammiratori che si recano in pellegrinaggio sulla sua tomba nel cimitero monumentale di Passy, a due passi dal Trocadero a Parigi.

La Musa delle Violette è l’altro soprannome che le è stato attribuito. Non solo perché amava il fiore ma anche perché prediligeva vestire lunghi abiti di chiffon neri o viola. La scelta del viola non è poi casuale, dato che la tonalità nel linguaggio cromatico definisce l’intuizione e l’intimità con la propria anima. La scrittrice Colette, amica di Renée Vivien nel suo romanzo Il Puro e l’Impuro, ci regala un ritratto della poetessa abbastanza fedele. Ne descriveva la chioma lunga biondo cenere, le bellissime palpebre, l’incarnato d’avorio, la flessuosità del corpo, la magrezza alquanto insolita per quei tempi, l’incedere elegante. Tuttavia, Pauline Tarn l’inglese che decise di ripudiare la propria lingua madre per scrivere versi e prosa solo in francese, ci racconta sempre Colette, era “colpita da un’angelica goffaggine”, “imbastardiva” il francese con le sue dentali all’inglese, ma soprattutto custodiva una malinconia cupa che abitava solo i suoi versi, e che all’esterno era completamente celata.

“Non ho mai visto Renée triste”, raccontava ancora Colette. La giovane poetessa poteva essere divertente e ironica, dal linguaggio a tratti crudo, fedele nelle amicizie forse più che nell’amore.

E proprio questo suo lato solare e buffo emerge nel carteggio con il giovane e serio professor Charles-Brun. Pauline lo battezza Suzanne, lo femminilizza, ogni lettera inizia con il rituale “Ma chère Suzanne” che attraverserà quasi un decennio di amicizia e scambi letterari. Un epistolario in parte legato alle correzioni che Charles-Brun compie sulle poesie di Vivien, e in parte ai racconti di un quotidiano contatto: dalle turbolente vicende sentimentali con l’ereditiera americana e scrittrice Nathalie Clifford Barney, al legame più solido e dipendente con la baronessa Hélène de Zuylen nata Rotschild, fino alla relazione professionale con l’editore Alphonse Lemerre che stampò gran parte delle opere della poetessa inglese.

In mezzo ci sono i pensieri, gli scherzi, il linguaggio diretto e tagliente di una donna emancipata per la sua epoca. Un’artista che ha viaggiato da sola per gran parte della propria vita, visitando l’Oriente, il Giappone, la Turchia, la Grecia, traendo ispirazione e linfa vitale alla sua arte dalla conoscenza di territori inesplorati.

Renée Vivien ha costruito il proprio personaggio nel culto di una bellezza androgina, per la quale la sua epoca non era forse ancora pronta, ma che oggi la farebbe diventare “un’influencer” dal largo seguito. Un seguito che Vivien ancora oggi possiede: la sua bellezza, la perfezione cesellata delle sue liriche, il gusto per la provocazione, il tessere una tela armonica in bilico tra due sessi, l’essere un passo avanti nel messaggio della sua opera e un passo indietro rispetto al tramonto del Simbolismo. Tutto ciò ha dato vita al personaggio e all’artista maudite. Figura maggiore ma atipica della letteratura femminile della Belle Époque, Renée Vivien dopo una lunga eclisse, un oblio durato troppo a lungo, sembra essere uscita dal suo purgatorio grazie ad alcuni lavori accademici e alle riedizioni aggiornate delle sue opere giunte a noi dopo quasi quarant’anni. La pubblicazione del carteggio con Jean Charles-Brun consente l’atteso ritorno sulle scene della poetessa che, oltre al premio di poesia che porta il suo nome, vanta l’intitolazione di una piazza a Parigi: place Renée Vivien nell’elegante quartiere del Marais.

Vivien ha pubblicato una ventina di raccolte di versi, alcuni romanzi in prosa nello spazio di una decina d’anni di attività. Renée Vivien ha, inoltre, dato prova di erudizione traducendo dal greco le opere dei lirici greci, tra cui Saffo. Rinverdendone il mito imperituro e incarnandone la sensualità del verso.