Professionalità, feeling e raziocinio sono le caratteristiche che tratteggiano l'opera di Roberto Magris: all'attivo il pianista giuliano ha circa 35 dischi, che lo hanno proiettato in maniera stabile anche sulla scena non certamente facile di Kansas City, in cui abbina anche una feconda militanza con l'etichetta J Mood Records e vari riconoscimenti di prestigio fra cui quello di Downbeat, la rivista di riferimento americana che ha indicato il suo Live in Miami fra i migliori dischi del 2018. In questo periodo di forzata cattività il musicista triestino ha proseguito le sue riflessioni in musica con due progetti diversi per echi, allusioni ed originalità, di cui ci ha parlato in contemporanea all'uscita: “Entrambi sono stati registrati a Chicago, partendo da Suite! nel 2018 e poi Shuffling Ivories nel 2019. Il primo è un Cd doppio nel quale ho cercato di proporre un messaggio non solo musicale ma anche spirituale e di presa di coscienza sociale, proiettato al futuro.

In questa ottica vanno letti, ad esempio, brani A message for a world to come e Circles of existence. Potrei definirlo un disco di spiritual jazz, dove un ruolo importante lo giocano anche i testi originali, proposti in spoken word dalla voce di PJ Aubree Collins. Il gruppo comprende, inoltre Eric Jacobson alla tromba, Mark Colby al sax tenore, Eric Hochberg al contrabbasso, Greg Artry alla batteria, ed io mi alterno tra piano acustico e Fender Rhodes. Shuffling Ivories è invece un omaggio alla tradizione del jazz afroamericano, da Eubie Blake ad Andrew Hill, passando per alcune mie nuove composizioni originali. È un album in duo di piano/bass assieme ad Eric Hochberg, mio contraltare ideale in questo contesto musicale. Entrambi gli album sono particolarmente gettonati dalle radio jazz americane, nonostante il periodo infelice della pandemia, e li ritengo un punto di arrivo nella mia carriera musicale, da far conoscere anche in Italia. Sono i dischi # 18 e 19 incisi a mio nome negli USA, con musicisti americani, per un’etichetta che si trova in una città della quale sono cittadino onorario. Arrivano dopo quarant’anni di carriera musicale vissuta intensamente, soprattutto all’estero”.

Come è andato questo periodo? Non avendo potuto suonare dal vivo ti sei concentrato maggiormente sulla scrittura?

Ho fatto di necessità virtù, ma ho anche colto l’occasione per ascoltare tanta musica, vecchia e nuova, e scoprire/riscoprire figure magari secondarie del jazz che però hanno offerto spunti interessanti che magari potrò riprendere o sviluppare in futuro. Inoltre, il mio produttore Paul Collins continua a mantenere alti gli stimoli con proposte di progetti futuri da realizzare non appena potrò ritornare negli USA. Vedremo. Oggi i tempi sono ancora difficili e strani ed il Tao insegna che bisogna saper scorrere nella corrente, in pace, dovunque essa ti porti, senza volerla forzare.

Quali sono stati i tuoi riferimenti stilistici e come concepisci la metodologia dell'improvvisazione?

I miei riferimenti stilistici, come pianista jazz, sono stati McCoy Tyner, Thelonious Monk via Andrew Hill e Randy Weston, e Bud Powell via Barry Harris, Elmo Hope ed Hampton Hawes. In generale, poi, per me il jazz è la musica di John Coltrane, Charlie Parker, Duke Ellington, Charles Mingus, Miles Davis, Horace Silver, Ornette Coleman… una tradizione di cui tenere sempre conto e da cui partire per un proprio percorso personale. Per quanto concerne l’improvvisazione, il jazz è un linguaggio che, una volta imparato, deve essere poi riempito di contenuti. Ci si può esprimere in diverse lingue – stili, nel jazz – ma ovviamente è importante quel che si dice, il contenuto, che deriva dalla propria personale qualità, frutto di umanità, cultura, sensibilità, creatività, espressività che, tutte assieme, è sempre necessario continuare a sviluppare ed accrescere, per tutta la vita, in tutte le direzioni.

Qual è stata la più grande soddisfazione della tua carriera?

È una risposta da dare senza pensarci troppo, perché altrimenti, iniziano a montare troppi ricordi e sensazioni. Direi, forse, i miei concerti a Hollywood, al Catalina Jazz Club, con il mio nome che scorreva in cartellone e con Art Davis, bassista di John Coltrane in Ascension e Africa Brass che invece stava suonando la mia musica. E poi altri concerti con Idris Muhammad, Albert Tootie Heath, Ira Sullivan, il live a Miami con Brian Lynch, che è stato appunto molto lodato dalla critica e poi ancora con Herb Geller. Come non citare poi un concerto a Libreville in Gabon, assieme a musicisti tradizionali africani, del tutto ignari del jazz e di ogni altra forma di musica che non fosse “il suonare”, come un biglietto di andata e ritorno per la mother Africa.

Come vedi la situazione attuale di un musicista che suona jazz rispetto a quando hai iniziato?

Io ho iniziato alla fine degli anni ’70 e c’era chi faceva classica, chi rock, chi pop, chi jazz, ma raramente ci si mescolava e non c’era quella apertura mentale e disponibilità a mettersi in gioco che poi, grazie anche a musicisti come Miles Davis ed alla nascita delle scuole di musica moderna e jazz, hanno portato nel corso degli anni alla situazione odierna nella quale si coltiva una musicianship a tutto tondo, al di là degli stili e dei diversi tipi di musica. Chissà, forse negli anni ’70 si vivevano anche gli effetti inconsci di un mondo diviso in blocchi, mentre oggi viviamo nella globalizzazione. Rispetto al passato, oggi le possibilità per esprimersi sono più ampie ed immediate, anche grazie all’accesso alla rete. Questo è un vantaggio perché la ribalta è teoricamente alla portata di tutti, ma può essere anche uno svantaggio perché, rivolgendosi a un pubblico generico e globale, la semplificazione ed il livellamento artistico sono dietro l’angolo. E quindi va preservato il concetto di different is beautiful. Poi c’è l’aspetto della musica dal vivo, particolarmente importante per il jazz, che deve assolutamente continuare ad esistere. Sono comunque fiducioso che la giovane generazione saprà farsi valere rispetto ed anche a dispetto delle tendenze della società, e saprà utilizzare e non subire le nuove tecnologie, da un punto di vista artistico e professionale, così come è sempre stato. Oggi, senza la tecnologia passata non esisterebbero pianisti.