Spesso si pensa che la soluzione al dolore e all’ansia sia altrove,
ma è nel dolore la soluzione del dolore (e nell’ansia la soluzione dell’ansia).
Sentendolo, abitandolo, assaporandolo, non è più un estraneo,
ma a poco a poco un ospite scomodo, irruente, tempestoso e infine un pezzo di noi.

(Chandra Livia Candiani, Il silenzio è cosa viva, Einaudi, Torino, 2018)

Il dolore è fantasioso, sempre pronto a stupirti, non ama la continuità che darebbe il vantaggio di poter prevedere i suoi movimenti, è un giocatore solitario e raffinatissimo, che ha sempre carte vincenti da scoprire.

Talora arriva come un brivido che sfiora il corpo con la leggerezza di un battito d’ali e poi, d’improvviso, mentre ancora stai cercando di comprendere, di percepire quella sensazione, di farti consapevole, diventa più intenso, cattura la tua attenzione, pretende di essere ascoltato e allora sai che non potrai sottrarti al suo tocco.
Il tuo respiro cambia, cominci ad ascoltarlo, ti ascolti e lo ascolti, conti i minuti, o forse sono secondi, e ancora lo ascolti. Vai a cercare la sensazione per riconoscerla, ma quando tornerà non sarà la stessa e dovrai ricominciare ad inseguirla ed a farti inseguire.

Lo senti avvicinarsi il dolore, non si fa scrupolo se ti trovi in un momento di felicità, vorresti chiudergli in faccia la porta ma non c’è un modo per fermarlo, per impedirgli di entrare, per tenerlo lontano da te che, per questa volta, non vuoi accoglierlo.

A volte è una sensazione di gelo che spacca il cuore, è la percezione di un soffio penetrante e appuntito che trafigge il corpo: un istante paurosamente lungo che prelude alla fulminea brevità della tregua nella quale c’è già l’attesa del suo ritorno.

C’è un dolore con gli occhi aperti che lasciano vedere ciò che l’anima sta sperimentando e c’è un dolore che chiude gli occhi per non vedere e non essere visto.

C’è un dolore che sta tutto nella mente intarsiata di pensieri potenti, caparbi, è un dolore algido, persistente, quasi indomabile che resiste tra le pieghe dei ricordi, che si accartoccia nel profumo del calicanthus che lo fa rivivere ogni inverno.

A volte è un dolore conosciuto, che lasci entrare con fiducia, poiché lo confronti con sensazioni già provate che ti rassicurano, ma lui è diverso, percorre un suo cammino, sa insinuarsi fino a fare di te la sua dimora, fino a diventare il tuo silenzioso tiranno. È capace di oscurare il tuo sguardo e di toglierti ogni leggerezza. Cominci ad aspettarlo, sai che si farà sentire, non riconosci più la condizione della sua mancanza; se ti torna alla memoria ne hai paura e vorresti di nuovo sentirlo, solo per un istante, per rassicurarti sulla sua intensità, fatichi a farti sfiorare dal pensiero che ti abbia abbandonato.

C’è un dolore morbido che increspa con eleganza la superficie quieta della serenità fino ad agitarla di onde e c’è il dolore di un vecchio film che sussurra al cuore e lo spezza.

Credi di aver fatto la sua conoscenza ma subito si fa silenzioso, sfugge alle tue domande, non si lascia catturare, a volte scompare senza dirti se tornerete ad incontrarvi e allora inizia l’attesa che può durare minuti eterni, lunghi come notti senza stelle e quando hai smesso di pensarlo come un ospite di riguardo che saprai accogliere, ecco che si fa annunciare da quel segnale che ti è familiare.

Il dolore ha un modo tutto suo di respirare.

Il dolore ha un nome e vorrei servirmene per rimproverarlo come un figlio ribelle, ma, proprio come farei con quel figlio, gli vado incontro e me lo stringo al cuore senza mostrare il pianto che vorrei lasciar scorrere.

Il dolore è un sentimento che attraversa per intero il corpo, tocca tutte le sue cellule, nessuna esclusa, con una vastità di sfumature che lo rende geniale nel suo manifestarsi: mai troppo piccolo, mai troppo grande, sa dove avvinghiarsi per sentirsi più al sicuro, più capace di esprimersi al meglio.

Quando gli parli senti di essere ascoltata ma non puoi chiedergli di lasciarti, come un vecchio amante al quale non puoi smettere di volere bene.

Sa aspettare, sa osservare con cura, sa ridestare fantasmi che la mente custodisce per sfoderarli nelle grandi occasioni.

Stai per addormentarti e ti ritrovi a pensare che, forse, al risveglio, se ne sarà andato.
Riesci ad immaginarlo mentre si allontana, presuntuoso e ingiusto, già alla ricerca di nuovi incontri.
Apri gli occhi nel cuore della notte ed è lì, ad aspettarti, implacabile.
Ti trascina nei lunghi corridoi deserti, madidi di silenzio, senza porte, senza respiro e il ritornello di una vecchia musica continua a suonare.

Il dolore scorre e scava come il rivolo d’acqua che entra nella roccia, è liquido come le lacrime, è freddo come la prima neve.

Gli parlo dolcemente come ad un bambino che chiede attenzione e cura, gli racconto di me che guardo alla sua assenza come ad un miraggio, un sogno colmo di attesa, l’ingresso in un castello di nuvole senza tormento.

Scrivo parole a lui dedicate.
Scrivo per fissare le suggestioni delle quali mi fa dono.
Scrivo per distrarlo.
Mi sforzo di rivolgergli uno sguardo tenero, accogliente, cerco di blandirlo e talora mi aspetto di ottenere in cambio il suo silenzio, e invece no, mi concede soltanto una tregua in attesa di dire la sua con accresciuta determinazione.

Vorrei interrompere quel dialogo che non avrei dovuto iniziare eppure non riesco a smettere, mi sforzo di capire, di accettare, come se incontrassi qualcuno che voglio disperatamente conoscere, caparbiamente comprendere.

Il dolore inceppa la lingua, è balbettante, la voce non trova la sua armonia, la gola si stringe in un respiro trattenuto. È una sensazione sottile, intima.

La sua è una lingua dura, che conosce la crudeltà.
La sua è una lingua antica, ha qualcosa di primordiale, ha bisogno di essere compresa, è faticosa.
È la lingua che ha raccontato la violenza di antiche guerre, che ha accolto il grido di Antigone alla vista del cadavere insepolto di suo fratello, il dolore crudele e ineluttabile dell’accecamento di Edipo e dell’uccisione dei figli per mano di Medea: la lingua tragica della morte, della colpa e dell’abbandono.

Una lingua capace di mostrare il dolore, di farlo toccare e sentire nel corpo, di farlo diventare immagine della nostra sofferenza, diversa per ognuno, ma sempre pesante e intrisa di quella paura che ne è inseparabile e scomoda compagna.

La sofferenza è quel di più di dolore che ci procuriamo attraverso la mente emotiva che interpreta le nostre percezioni, ne elabora l’intensità, le rende reali, ce le fa sentire come nostre: c’è una nostra responsabilità nella sofferenza, nel rimanere intrappolati nell’esistenza ed è per questo che noi possiamo agire su questo terreno e decidere di guarire da questo disagio che ci toglie libertà.

A cura di Save the Words®