Sono state inaugurate in contemporanea, nella seconda decade di gennaio, al Museo 900, due mostre Henry Moore. Il disegno dello scultore e Henry Moore in Toscana. La prima a cura di Sebastiano Barassi, Head of Henry Moore Collections and Exhibitions e di Sergio Risaliti, direttore artistico del museo. La seconda a cura del direttore Risaliti, che ha voluto la presenza on line della figlia di Henry, Mary Moore. A lei è stato chiesto di ricordare i rapporti di Henry con la Versilia e di come alcuni artisti del Rinascimento possano aver profondamente influenzato la produzione artistica del padre.

Queste mostre, che durano fino a luglio, ci fanno entrare nelle modalità creative di Moore, attraverso l’esposizione di sue sculture di piccole dimensioni, gentilmente prestate da privati, che risalgono agli inizi della sua attività artistica, e soprattutto attraverso circa 70 suoi disegni. Disegni curatissimi, con intenti molto simili a quelli di Leonardo, come abbiamo imparato dal Codice Leicester alla mostra del 2019 L’acqua microscopio della natura, basata su quel codice. Lì Leonardo afferma di disegnare con grande dettaglio vortici, flussi e superfici d’acqua perché questi suoi (bellissimi ndr) disegni lo aiutano a capire meglio i meccanismi con cui l’acqua scorre e si trasforma. Moore rivendica l’importanza del disegno in altra forma: “Guardare un branco di pecore era per me vedere palle di lana, ma quando mi sono messo a disegnarle, ho scoperto che erano una diversa dall’altra”. Per tutti e due disegnare è imparare. Un’altra analogia fra questi due grandi artisti la vedo nella loro infanzia: Leonardo, figlio naturale, fu affidato ai nonni che lo lasciavano perlustrare la natura in libertà, senza maestri; Henry, di umile famiglia - padre minatore - era sicuramente lasciato a se stesso, come succede ai poveri, ed ha precocemente coltivato la sua passione per le rocce, il carbone e le pietre grezze levigate dall’acqua del suo Yorkshire.

Arte e scienza, dunque, intrecciate nell’uno e nell’altro artista. Con una differenza: che Moore nasce scultore e capisce solo più tardi, studiando a Firenze i grandi del Rinascimento, tutti valentissimi disegnatori, che deve usare anche lui la matita, sviluppando un suo modo di riprodurre la natura, con una particolare predilezione per i tronchi d’albero e le rocce ma anche ossa, ciottoli, conchiglie e radici.

Grafiche a colori tenui le usa invece per gli incontri fra cielo e terra o le vette delle montagne sullo sfondo del cielo. Allo spettatore qualche intreccio di tronchi appare come due corpi nudi, femminile e maschile, appoggiati l’uno all’altro. Anche nelle grafiche due montagne appaiono come un enorme seno puntato verso il cielo. Ma spesso si tratta di studi approfonditi per rendere fedelmente i volumi di oggetti naturali.

Per il corpo umano Henry si sofferma a studiare le mani, in varie posizioni, intrecciate o riprodotte singolarmente, alla ricerca dell’espressione di stati d’animo che vi si possano leggere. Ma anche per progredire nell’arte della scultura, come ci dice in un suo scritto:

La percezione della forma è per lo scultore una sensazione interiore: ogni forma, infatti, indipendentemente dalle sue dimensioni e dalla sua complessità, viene da lui percepita come se fosse contenuta nell’incavo della sua mano, e visualizzata mentalmente nella molteplicità dei suoi aspetti.

Parecchi disegni riguardano la scatola cranica di un elefante, donata all’artista nel ’68 da una coppia di amici, Juliette e Julian Huxley, e tenuto sempre in bella vista sul tavolo del suo studio. Di esso ha fatto molti disegni a matita, non solo quelli per renderne la tridimensionalità e poi utilizzarli per fare incisioni, ma anche costruendo un pattern di linee nel piano, un disegno che non è però di facile lettura. E infatti, scritto in verticale al centro di quel particolare disegno, si legge: “Cranio di Elefante”. Nessun altro dei disegni esposti reca una scritta per spiegarlo!!

Quando, nel 1972, Henry Moore espose al forte Belvedere di Firenze 40 sculture in una mostra famosa nel contesto internazionale, tutti gli occhi erano puntati sulle sculture di grandi dimensioni. Da questa mostra di disegni e piccole sculture giovanili ci sembra possibile ricostruire meglio il suo percorso creativo, pensando che, ad un inizio di passione per le forme che lo ha portato giovanissimo a realizzare sculture in miniatura, connotate già di una sua personale visione, sono seguiti poi studi fatti con disegni dei minimi dettagli delle forme di natura, “dentro e fuori”, per carpirne la struttura e per potersi poi lanciare in sculture di dimensioni maggiori di quelle naturali. A farci comprendere ancora di più lo scopo dei disegni da lui realizzati: capire come le masse si possano comporre in stabilità. Anche un commento di Sergio Risaliti ammette: “La centralità del disegno nella visione creativa dell’artista lungo tutta la sua carriera”.

Terminiamo con le illuminanti parole di Henry Moore sull’arte contemporanea:

Disapprovo l’idea secondo cui l’arte contemporanea sarebbe un atto di fuga dalla realtà. Il fatto che l’opera d’arte non abbia come scopo la riproduzione fedele delle sembianze della natura non è motivo sufficiente per ritenere che essa sia uno strumento di evasione dal mondo e dalla vita: al contrario, è proprio attraverso l’arte che è possibile addentrarsi ancor più profondamente nella vita stessa. L’arte non è un sedativo o una droga, né un semplice esercizio di buon gusto, e neppure un abbellimento della realtà con piacevoli combinazioni di forme e di colori; è invece una espressione del significato della vita e un’esortazione a impegnarvisi con sforzi ancora maggiori.

Facile pensare che sia stata un’autodifesa necessaria all’ostilità con cui si guardava, 50 anni fa, alle statue che donava ai suoi ospiti. Non vi perdete, sull’argomento, ciò che ha scritto Sandro Veronesi ne -L’invisibile essenziale: Henry Moore e Large Square Form with Cut per la città di Prato. Si trova al primo piano del Museo, su uno dei muri delle stanze dedicate alla mostra *Henry Moore in Toscana.

Questo induce una riflessione su città “di cultura”, così restie ad accettare le novità, salvo poi inchinarsi a chi è ormai universalmente riconosciuto come artista, o alla sua memoria, post mortem.