Il deserto fu donato agli uomini per ritrovare la loro anima.

(Detto tuareg)

Non è stato un viaggio programmato: una telefonata ricevuta a fine dicembre di diversi anni fa, la consultazione della mia agenda e con Paolo (lui preferiva andare in città con biblioteche ben fornite di materiale per i suoi studi) e la decisione di partire, nella seconda settimana del successivo gennaio, per l’Algeria.

Le poche notizie del viaggio, che sarebbe stato un traversamento, per la prima volta in automobile, del cordone di dune dell’Erg Chech nell’Algeria del Sud-Ovest, vicino ai confini con il Mali e la Mauritania, per raggiungere dei siti neolitici, i cosiddetti paleosuoli, mi sono bastate per decidere di partire.

Arrivata ad Algeri, chiamata la “città bianca" dal colore dei suoi edifici calcarei in tipico stile coloniale francese, ho percepito la particolarità della città, africana ed europea, divisa in più parti: la parte moderna costruita sull'altopiano, circondato dalla città antica la cui kasbah domina i numerosi quartieri.

Nella visita alla kasbah, camminando nelle sue viuzze, ammirando gli edifici, i mosaici e le botteghe degli artigiani, ho colto i segni della storia dell’Algeria: occupata da fenici, romani, bizantini, arabi, fino ai francesi e all’Indipendenza del 1962.

Ho pensato al film -La battaglia di Algeri- di Gillo Pontecorvo, interamente ambientato nella città durante la guerra di Algeria e mi è sembrato di sentire lo zaghroutah, il suono vocale, tra il canto e l’ululato, usato in quella circostanza dalle donne per segnalare la presenza dei pieds noirs.

Nel corso della Guerra Civile, come altri quartieri della capitale, la kasbah divenne punto di riferimento per i militanti islamisti e, dopo essere stata luogo di degrado, classificata nel 1992 dall’UNESCO Patrimonio dell'umanità, è ora in fase di restauro.

A Adrar, che sorge in un’oasi nel Sud del Paese, ho preso contatto con i suoi abitanti, molto incuriositi dalla nostra presenza, mi sono incontrata con chi mi aveva invitato, la guida, gli autisti e il cuoco tuareg e ho fatto anche conoscenza dei compagni di viaggio: nove italiani, due francesi, e un algerino.

La città, che si basa prevalentemente sull'agricoltura, gode di un tradizionale sistema di irrigazione, la foggara che è un ingegnoso insieme di pozzi sorgivi per captare e trasportare l’acqua sotterranea in superficie.

Lasciata Adrar, abbiamo preso (22 persone), a bordo di quattro fuoristrada e con un pick up di appoggio per viveri e scorte varie, la pista che a Ovest si dirige verso l’Erg Chech.

Ero ansiosa di entrare in quell’insieme di dune, uno dei più grandi del mondo, che i Tuareg non potevano che chiamare così come il loro copricapo tradizionale.

Abbandonata la pista ci siamo immersi nei cordoni di dune, anche di duecento metri di altezza, che dovevamo attraversare e costeggiare.

Con le nostre macchine, contando solo sul sistema di radiolocalizzazione Loran, come sulle onde del mare abbiamo galleggiato per giorni sulla sabbia, scavalcando e aggirando i cordoni, intervallati da corridoi gassi creati e modellati dai venti.

Anche gli autisti e la guida tuareg non avevano mai traversato l’Erg Chech. Avevano solo esperienza nel cercare la traiettoria e il punto migliore per scavalcare le dune. Ma questo non è bastato per evitare gli insabbiamenti che sono stati tanti e impegnativo è stato il lavoro, con le piastre, per far ripartire le auto.

Nel nostro vagare abbiamo trovato e ammirato, affiorando dalla sabbia, macine, pestelli, asce levigate, frecce in selce, e pezzi di ceramica, alcuni risalenti a periodi storici molto antichi, come il paleolitico inferiore, altri, più recenti, al neolitico.

La presenza massiccia di questi manufatti ci ha testimoniato un passato in cui l’uomo, più di diecimila anni fa, abitava queste vallate che poi coperte dalla sabbia sono rimaste incontaminate e sono un sogno per i viaggiatori sahariani.

Visitare uno degli ultimi angoli del pianeta, dove non è passato nessuno da millenni, ammirare paesaggi mai visti da altri viaggiatori e godere di un silenzio surreale, sono sensazioni difficili da descrivere, bisogna viverle.

Come dice Tahar Ben Jelloun:

Il Sahara non si visita come una medina: si vive, non si concede, bisogna lasciarsi prendere dal suo mistero, dai suoi segreti, e immaginare il sogno dietro le dune di sabbia, che a volte si muovono e a volte rimangono immobili.
Il deserto è un’idea, un modo per spogliarsi di tutto e osare guardarsi in faccia; è uno specchio che bisogna prendere sul serio.

Noi il deserto l’abbiamo proprio vissuto, ognuno a suo modo: facendo volare colorati aquiloni, salendo sulle dune più alte, cercando le freccette. Ci siamo fatti coinvolgere dal suo mistero e ci ha anche allarmato. Abbiamo dormito in tenda, ci siamo lavati con docce improvvisate e abbiamo mangiato cose semplici, senza difficoltà. Il problema sono state le vetture.

Il camion da appoggio e un grosso fuoristrada si sono rotti e si sono dovuti abbandonare. Il peso, distribuito sulle altre vetture, ha comportato maggior consumo di carburante e di acqua. In pieno Erg Chech ci siamo trovati con acqua che poteva bastare per poche ore e carburante per pochi chilometri.

Usciti dal cordone di dune, la prima ricerca di un pozzo è stata negativa. Passata una notte piena di tensione, il giorno successivo, al confine con il Mali, segnalato da una grande balise, abbiamo trovato un pozzo. Avevamo risolto il problema della sete.

Anche i viveri scarseggiavano. Per i primi giorni ci hanno sfamato il cous cous e la taguella che è un pane, a forma di disco, fatto con farina di grano, cotto sotto la sabbia scaldata dalla brace di un piccolo fuoco e mangiato, spezzettato, con un ragù di montone.

Non avendo mezzi di comunicazione, la radio era vietata, il problema era quello di comunicare la nostra avaria e la nostra presenza in un posto dove, oltre al pozzo, c’era una sola palma.

Gli autisti tuareg, che sono bravissimi, sono riusciti, facendo una miscela di benzina e gasolio, a far partire il fuoristrada più piccolo con due persone a bordo che, in tre giorni traversando le dune, sarebbero dovuti arrivare ad Adrar.

L’attesa è stata lunga e vissuta con po’ d’angoscia, non sapevamo se sarebbero arrivati con il mezzo o avrebbero dovuto proseguire a piedi.

Per ingannare il tempo facevamo piccoli spostamenti nei dintorni; non osando di più perché nel deserto è facile perdere l’orientamento. Avevamo anche ricavato, su una pietra piatta, una scacchiera e, con i sassi come pedine, facevamo delle partite.

Le giornate venivano scandite dal tè della sera che, come per i Tuareg, era diventato un rito importante ed è servito ad allontanare, in parte, le preoccupazioni. Si dice che il rumore del tè che bolle nella piccola teiera, el barad, rilassi la mente e che il battito del cuore si adegui a quel ritmo.

La notte, sotto un cielo stellato, pensavo alle persone care che mi aspettavano a casa, ai progetti, ai sogni. Mi sono ritornati alla mente i tempi passati, gli amici, gli amori, gli studi e anche le cause in corso. Non ero pronta per la morte.

Un rumore di bimotore è stato il segnale della salvezza: il piccolo fuoristrada era riuscito ad arrivare ad Adrar. Era stato dato dare l’allarme e comunicato in Italia, dove giornali e televisione ci avevano dato per dispersi, il nostro ritrovamento. Dall’aereo, appena ci hanno avvistati, sono stati lanciati dei viveri e dopo tre giorni i militari algerini ci sono venuti a recuperare.

Durante il nostro avvicinamento a Adrar, siamo stati colti da una tempesta di sabbia che ha rallentato il nostro cammino. Abbiamo trovato riparo nel Bordj Flye Sainte-Marie che ci è apparso irreale all’orizzonte.

Il fortino della Legione Straniera, costruito dai francesi agli inizi del Novecento, in completo abbandono dopo l’allontanamento dei militari algerini, mi ha ricordato l’atmosfera del Deserto dei Tartari di Dino Buzzati, così come è sintetizzata nel suo incipit:

È l'attesa in tutte le sue declinazioni: l’attesa del grande amore, della grande avventura, l’attesa della morte. In realtà è l’attesa del proprio destino, o meglio ancora, è l’attesa del senso del proprio destino.

Arrivati a Adrar, con il francese degli aquiloni, preso un taxi sono andata a Timimoun, “l’Oasi Rossa” per il colore ocra rossa dei suoi edifici costruiti in stile neo-sudanese.

È stata una giornata di relax.

Ho camminato nella sebka, un’enorme spianata che era un tempo un lago circondato da dune e palmeti e lì ho raccolto tante piccole rose del deserto che poi, in parte, ho regalato ai miei compagni.

Ho ammirato la città vecchia e l’antico sistema di irrigazione. L’acqua raccolta dalla foggara e incanalata arriva nelle oasi dove una grossa pietra, a forma di pettine, seguia, ripartisce il flusso che spetta a ogni orto-giardino fellah che è formato da piccole aiuole rigogliose, le jenne.

La giornata si è conclusa con l’intervista telefonica di un giornalista del Corriere della Sera e così la notizia del mio Erg Chech si è diffusa.

Arrivati ad Algeri è stato difficile salutare i compagni con cui ho condiviso questo viaggio indimenticabile, dove sfida, solidarietà e collaborazione, soprattutto con alcuni e con i Tuareg, sono stati elementi essenziali.

Il turbinio di emozioni provate nell’Erg Chech è ancora vivo in me e forse proprio l’anima non l’ho trovata, ma sicuramente quell’esperienza mi ha aiutato a superare altri momenti difficili della mia vita.