È un nome quello che bisogna dare alle cose per poterle riconoscere ed è per questo che ho chiamato “icone laiche” le opere di Sergio da Molin. Figure immobili che osservano gli eventi senza emozioni.

Non c’è paesaggio, non c’è contesto perché come le icone non hanno tempo e sono oltre lo spazio della storia, corpi e oggetti che si ergono con statuaria presenza.

Immagini fissate come una memoria senza passato e senza futuro, fermate nell’attimo eterno della visione che le fa apparire sulla scena.

I personaggi isolati nella loro fissità sembrano grandi manichini Dechirichiani imprigionati nella cornice che conserva una loro immagine innocente, ovvero incapace di nuocere, di soffrire, di influenzare gli eventi. Creature fuori dalla vita, autoreferenziali, immortalate nel silenzio della parola.

Presenze che, paradossalmente, rimettono ordine nel disordine della storia: le fratture si compongono e le parti separate assumono unità, i frammenti si avvicinano fino a sfiorarsi nella completezza dell’essere. Reliquiari nei quali si conservano come in una teca oggetti e figure che testimoniano il loro essere stati reali. Pittura che dà sacralità all’umano, che ha il suo soggetto nella visione del quotidiano: metafisica del reale

Se guardo le icone laiche di Da Molin, se mi metto in ascolto sento un monologo, una voce che può essere riprodotta, riascoltata ma che è solo se stessa, capace di conservare per sempre la propria straniante fissità. Pare che non ci sia spazio per immaginare altro poiché l’immagine vuole essere guardata solo per quello che è, può essere riprodotta ma non interpretata.

Anche gli aspetti simbolici sono esclusi ed è l’artista che, senza ostentazione, domina la scena. Come in un teatro nel quale allo spettatore non si chiede condivisione empatica bensì visione, soltanto visione: lo sguardo è attratto dalla scena immobile che trascende la vita nella sua multiformità per essere ricondotta unicamente alla concretezza e alla fisicità di cose, volti e personaggi.

Come un contraltare di quell’uno, nessuno, centomila di pirandelliana memoria, questi soggetti sfuggono alla molteplicità, alle mille sfaccettature dell’animo, della psiche, dell’io diviso, frantumato al centro della visione novecentesca del mondo.

Queste figure non hanno smussature, sembrano riprodursi per partenogenesi poiché ciò che debbono comunicare è la riproducibilità senza variazioni, l’inquietante immagine di un mondo che l’artista può dominare.

L’artista che conosce il meccanismo della riproducibilità governa la materia, semplifica e domina il rapporto con il mercato e con il fruitore.

L’opera d’arte vale senza bisogno di sottintesi, di spiegazioni: è un oggetto da guardare, da adorare, da osservare con il medesimo sguardo che viene riservato alle cose della quotidianità poiché sono queste cose a rappresentare per noi gli inconsapevoli, non religiosi oggetti di culto esposti sull’altare della realtà.

La lambretta, l’automobile, un elicottero, la lattina non sono diverse dall’immagine di un divo, di un artista, di un personaggio storico.

Le opere di Da Molin sono capitoli di una storia che non giudica e non vuol essere giudicata, impronte di vita, tracce indelebili di verità.