Pensando il periodo doloroso e confuso che stiamo vivendo, periodo di malattia e di contagio di cui non si conosce molto, ma di cui si patisce il senso di impotenza e di drammaticità, non ho potuto non associarlo al tempo cruciale dell’adolescenza dove ci si deve impattare col nuovo in uno stato di confusione, a volte di allerta, a volte di impazienza e dove, in ogni caso, non si sa come andrà a finire, è del tutto incerto a quale esito il percorso di transizione condurrà.

Entrambi questi tempi hanno in comune il sentimento della precarietà, della sospensione, dell’attesa, e della scoperta. È un tempo-spazio doloroso che può aprire, però, alla ricerca e alla creatività, certamente suscita sentimenti e comportamenti ambivalenti a seconda che si sia animati da un senso di disperazione o di speranza.

La sospensione la si potrebbe anche intendere come quel momento necessario di chiusura, quello stare acquattati nel guscio protettivo, quasi una sorta di letargo o di inverno, come uno stato preparatorio al rinascere, quell’occasione per recuperare le forze e ripartire, assimilabile al bisogno di concentrarsi e rannicchiarsi su di sé per raccogliere energie prima di andare con propositività verso il fuori, come avviene anche nei movimenti delle arti marziali, col corpo raccolto a uovo per esplodere poi col massimo dell’energia all’esterno.

Certamente è uno stato che mette a contatto con la fatica e col dolore e il corpo, sia in adolescenza sia nella pandemia che stiamo vivendo, è in primo piano.

Col COVID il corpo è attaccato, intaccato, massacrato, isolato, ucciso.

In adolescenza il corpo è spesso vittima di mutilazioni, può essere mortificato, nascosto o sovraesposto, maltrattato, negato, come nelle pratiche di autolesionismo, o nei comportamenti alimentari, quali anoressia e bulimia, ma anche nelle tossicodipendenze o nei tentativi di suicidio o addirittura nei suicidi stessi.

Lo sanno bene gli adolescenti quanto è traumatico l’affacciarsi sull’ignoto, quanto è doloroso l’impatto con la realtà e col cambiamento. Il contatto con gli altri può essere spesso vissuto come pericoloso, addirittura dannoso e lesivo della propria individualità, per cui il desiderio e allo stesso tempo la paura degli altri crea angoscia e disorientamento, e pesante è il dolore della solitudine.

Forte e pressante è il bisogno di una base sicura, di una guida che indichi la giusta via, ma è anche difficile potersi fidare e affidare e succede che ci si rintani ancora di più, per il terrore di scontrarsi con contenuti impensabili, terrifici, come succede per gli adolescenti definiti Hikikomori, che sentono il bisogno di “murarsi” vivi nella loro cameretta tanto temono il contatto con gli altri esseri umani, addirittura anche coi familiari, tormentati e avviliti da intollerabili sentimenti di imperfezione e il timore è in fondo quello di sentirsi inadeguati alla vita, dunque paventano di esporsi alla mercé di contatti che potrebbero risultare nocivi e mortificanti.

Si rivela indispensabile trovare un contenitore adeguato o provare a costruirlo, ma occorre anche dare il tempo per la sua costruzione, che è anche il tempo della creatività e perciò con la speranza di una possibilità.

D’altra parte, adolescenza è ricerca, sorpresa, è uno stato rivelatore che ci tocca anche da vicino, proprio per quella marginalità tra l’infanzia e l’età adulta, quello stare tra il dentro di sé e il fuori, tra il bene e il male, tra normalità e follia e che ha a che fare con la complessità e misteriosità dell’essere umani.

Questo stato così vibrante e sofferente, intriso di cupezze e di speranze, attraversato da sconforti bisognosi di accudimento e, allo stesso tempo, da spinte reattive di opposizione e di trasgressione risuona tanto dei movimenti emotivi che si agitano anche dentro di noi in questo periodo oscuro, confuso e di sospensione.

Tutto questo dolore è attraversato barcollando drammaticamente su una sorta di ponte sospeso, come quei ponti tibetani che oscillano pericolosamente su dei precipizi. Terribile e veritiera la possibilità di non farcela e di cadere nel vuoto per sempre, attivando antiche angosce agoniche neonatali.

Il ponte si attraversa faticosamente passo dopo passo, che equivale ad uno starsene sospesi giorno dopo giorno non sapendo cosa succederà e cosa ci succederà, stare sospesi è angosciante, si può precipitare, si può non reggere travolti da intense angosce di morte.

Staccarsi dalla realtà dell’infanzia comporta una crisi fondamentale che si può superare vivendo un’esperienza piena di incertezza e di sensi di colpa che la psicoanalisi chiama “elaborazione del lutto”.

L’aiuto necessario in questo passaggio è offrire speranza di un approdo dall’altra parte per reincontrarsi con un corpo riscoperto e risignificato.

Le funzioni emotive della famiglia che aiutano a crescere, secondo Meltzer, sono: generare amore, infondere speranza, contenere la sofferenza depressiva, e pensare. Tutto questo nel senso di creare un clima di fiducia e di sicurezza che renda possibile un potersi affidare, e anche di offrire una visione ottimistica e progettuale, e pure aiutare a modulare la sofferenza entro limiti tollerabili per poter apprendere dall’esperienza. Il pensare poi è quella funzione che tiene conto degli aspetti mentali, sensoriali, emotivi, dei figli per comprendere e dare significato ai loro comportamenti.

Dovremmo allora attingere da un aspetto vitale adolescente, che è quello che, nonostante le turbolenze della crescita, è in contatto con la creatività, con la poesia della mente intesa come capacità di dare una forma, un’immagine all’esperienza del vivere.

Ludovico, 18 anni, confida alla sua terapeuta che sente di essere sull’orlo di una voragine, immagina di guardare l’abisso dall’alto e, come preso da una vertigine, non sa se buttarsi o meno. Il condividere questa immagine terrifica lo fa sentire non solo e prova un senso di fiducia che gli è di aiuto nell’immaginare di poter affrontare le sue difficoltà con la speranza di farcela.

La speranza e la fiducia, certo, ma soprattutto ci può essere di aiuto metterci in una posizione mentale di pazienza, accettando che i problemi possano non avere una soluzione immediata, ma c’è bisogno di un tempo di esplorazione e di elaborazione. Un tempo digestivo adeguato per un contenuto particolarmente pesante in quanto estremamente lesivo e sconosciuto. Il poeta inglese Keats ha denominato “capacità negativa” quella caratteristica dell’essere umano di tollerare di rimanere sospeso tra incertezze e confusioni e che lo psicoanalista Wilfred Bion ha ripreso definendola come “quella capacità che un uomo possiede di perseverare nelle incertezze attraverso i misteri e i dubbi, senza lasciarsi andare ad un’agitata ricerca di fatti e ragioni”.

Il mettere in campo queste potenzialità della mente non è facile, il contatto con l’esperienza emotiva informe è intrinsecamente motivo di angoscia, ma se si impara insieme a tollerare di rimanere in sospensione senza essere abbattuti da ansie persecutorie o depressive, si possono guardare con curiosità interrogativi infiniti e si possono condividere, ampliando così la nostra possibilità di incontrare la verità del vivere il dolore della realtà, e dando luce a nuove pensabilità, punto di partenza per una possibile trasformazione.

-Lloyd, esco a cercare qualche certezza.
-Sir, la pregherei di fare attenzione. È facile incappare in imitazioni scadenti di beni tanto rari.
-Ma no, Lloyd. È pieno di gente pronta a darti qualche certezza.
-Non si lasci ingannare, sir. Quelle sono al massimo opinioni placcate di superbia.
-E quindi, Llloyd?
-Credo sia meglio cercare un buon parere da una persona onesta, sir.
-E come le riconosco le persone oneste?
-Sono tutte quelle che non vogliono darle delle certezze, sir.
-Ottimo suggerimento, Lloyd.
-Dovere, sir.

(Vita con Lloyd, Simone Tempia)