Sono passati moltissimi anni dal giorno in cui il filosofo e botanico giapponese Masanobu Fukuoka (1913-2008) venne in Italia per la prima volta. Era il 1981 e l’Istituto Agronomico d’Oltremare di Firenze lo accolse per impartire le sue lezioni di “non coltivazione” ad un gruppo di apprendisti desiderosi di conoscere una via alternativa ai metodi dettati dal paradigma dominante, ispirato alla rivoluzione verde di provenienza per lo più americana. Da quell’esperienza fu tratta la pubblicazione Lezioni italiane stampato nel 2005 da Editrice Fiorentina.

In questi tempi difficili la libertà di spostarsi è limitata e si può dare più importanza al momento del “non fare”. Abituati a dover rendere conto in termini di “prestazioni” in quasi tutti gli ambiti della nostra vita, scuola, lavoro, famiglia, abbiamo l’opportunità di riconsiderare quanto proprio l’agricoltura sia un perno centrale della nostra esistenza.

Quanti giardini, parchi, fazzoletti di terra dietro casa (i cosiddetti back garden anglosassoni) sono spesso ingessati da decenni. Personalmente ho sempre osservato fin da molto giovane i giardini privati e ho notato come, soprattutto qui in Italia, molti proprietari considerassero quella parte esterna della casa come un luogo da mantenere per la maggioranza dei casi uguale a se stesso, dove la fatica è legata al pensiero di dover tagliare la famosa erba che cresce e potare la siepe. Pochissimi gli orti di città privati, rispetto ai classici giardini di rappresentanza o di maniera, con le classiche conifere, le magnolie, le siepi di cipresso di Leyland o qualche lauroceraso alternato alla onnipresente fotinia.

Però nel pensiero comune c’è l’idea che tutti siano in grado di fare un giardino o di coltivare un orto, dimenticandosi che si tratta di un’arte e una pratica che ha necessità di anni di studio. Spesso vediamo tanti giardini progettati da ingegneri, architetti o geometri i quali confidano di poter disporre della materia agronomica e botanica avendo magari sostenuto un solo esame (arte dei giardini nella maggioranza dei vecchi corsi di laurea) di arte del giardino1. Ma la cultura che sta alla base della pratica dell’agricoltura e delle scienze agro-ecologiche si sostanzia in una molteplicità di materie che vanno studiate e conosciute approfonditamente: dall’agronomia alla chimica del suolo, dalla botanica alle coltivazioni erbacee, dalla biochimica alla zoologia, alla biologia, all’idraulica e un’altra trentina almeno di discipline che costituiscono l’intero bagaglio curriculare da svolgersi in cinque anni di frequenza assidua. Fare un giardino o imbastire una pratica agricola senza conoscenze è come pensare di progettare un edificio senza avere cognizioni di statica, tecnologia ed impiantistica. Nessuno si fiderebbe di abitare quella casa.

Quanta importanza avrebbe però, soprattutto oggi, la possibilità di avvicinarsi alla natura e iniziare a conoscerla provando a coltivare un piccolo orto, magari sbagliando e riprovando; pensate che bastano appena 6 metri quadri per garantire una buona quantità di ortaggi per una persona.

E allora ritorna l’esperienza di chi ha saputo interpretare con grande maestria i messaggi della filosofia del “non fare”, del valore e del rispetto della natura di Fukuoka per farne una pratica adattabile al bacino del mediterraneo, al suo clima e al suo terreno: l’agronoma spagnola Emilia Hazelip (1937-2003).

Hazelip oltre ad aver appreso da diversi studiosi americani e australiani, evidenzia come abbia individuato dei precedenti fondamentali nei metodi di coltivazione delle popolazioni protostoriche indoeuropee descritte ne La Civiltà della Dea dell'archeologa e linguista lituana Marija Gimbutas.

Quattro i principi alla base del suo insegnamento, chiamato agricoltura sinergica (che potete trovare nel suo manuale pubblicato nel 2014 da Terranuova Edizioni), per quanto riguarda la pratica dell’orticoltura sono qui di seguito elencati:

  1. Nessuna lavorazione del suolo. Questo significa astenersi dall’antichissima e deleteria pratica dell’aratura (rovesciamento della zolla di terra!) e da qualsiasi altro tipo di disturbo del suolo perché esso si lavora da solo grazie al lavoro delle radici delle piante e della fauna e microfauna presente nel sottosuolo.

  2. Nessun apporto di fertilizzanti. L’apporto di elementi (azoto, potassio, fosforo, carbonio e tanti microelementi) che migliorano la crescita e lo sviluppo sano della pianta avviene grazie alle radici delle piante mai asportate dal suolo (le colture ortive precedenti effettuate nello stesso spazio) e grazie alla fondamentale pacciamatura (apporto di paglia, trinciato di bosco, foglie decomposte, trucioli di legno, cartone riciclato, ecc.) ovvero una copertura organica permanente. Cioè non bisogna lasciare mai nudo il terreno durante l’anno!

  3. Astenersi da qualsiasi trattamento di sintesi. Perché non è naturale e non è sostenibile l'uso di sostanze chimiche di sintesi.

  4. Nessun compattamento del suolo. Il suolo ha la capacità di arieggiarsi da solo, se noi evitiamo di provocarne il compattamento. Una volta create delle aiuole permanenti, in gergo “bancali” di circa 1,2 m di larghezza (dimensione studiata proprio per accedere facilmente dalle due parti senza entrare e calpestare) non si deve per nessun motivo passare sopra né con attrezzi (motocoltivatori, erpici, trapiantatori semoventi) né con il proprio peso; il terreno con i continui apporti di sostanza organica (paglia, residui di vecchie piante, foglie ecc.) sarà sempre più morbido al punto che non sarà neanche necessario toccarlo.

Naturalmente è fondamentale inizialmente intervenire quando si decide di predisporlo, dopo tanti anni in cui si è lasciato il terreno incolto o si è fatto un prato che presenta muschio, sassi o altri residui. Quindi è utile predisporre uno spazio assolato, almeno per 5-6 ore al giorno, togliere il cotico superficiale e utilizzare una forca a 3-4 denti che non rivolta il terreno ma lo dissoda e basta lasciando tutta la parte di sostanza organica, formatasi nel tempo, disponibile per le nuove piantine e sementi che andremo a porre a dimora.

Queste ultime vanno disposte in maniera che le specie siano mescolate, non le classiche file per specie e varietà dunque, ma in ordine sparso e frammiste a fiori, aromatiche proprio per creare un ambiente favorevole agli insetti utili, agli impollinatori e far sì che le radici di specie diverse si sviluppino con forza (piante vicine della stessa specie riconoscendosi sviluppano radici più ridotte e non godono delle associazioni buone tra una specie e l’altra). Inoltre tra le specie orticole floricole o aromatiche, prima di mettere paglia o strame di copertura, va fatta una semina di copertura, una semina di “riempimento”, ad esempio, insalatine, rucola o senape per far sì che tutto il terreno venga coperto e non lasci spazio a specie meno desiderabili molto competitive e forti.

Le consociazioni così studiate permettono di contenere gli attacchi parassitari e di creare un sistema dinamico dove le piante partecipano attivamente al benessere reciproco e tornano ad essere protagoniste della fertilità naturale del suolo.

(E. Hazelip)

A fine estate quindi dopo la raccolta non eliminiamo le vecchie piante ma lasciamole intere o sminuzzate a formare altro pacciamante che andrà a fertilizzare ancora il terreno in vista delle semine e dei trapianti autunno-vernini. Per contenere i bancali o aiuole potremo utilizzare intorno piccole assi di legno di recupero e cercheremo sempre più di creare una struttura baulata cioè con al centro una quota maggiore come un piccolo cumulo con il culmo parallelo alla lunghezza dell’aiuola.

Ecco il nostro orto è fatto, risparmieremo in acqua perché la paglia o la pacciamatura in generale tratterà umidità nel terreno, non consumeremo fertilizzanti (al limite irrigheremo con un macerato d’ortica che rinvigorisce, concima e tiene lontani gli insetti), non lavoreremo il terreno in quanto sarà già pronto e profondo per i nuovi impianti.

Altro elemento fondante per avere dei buoni risultati, oltre ad attenerci ai cicli lunari sia per le semine che per i trapianti e le raccolte (ricordiamoci di consultare sempre il calendario lunare per i lavori agricoli) è di fondamentale importanza la predisposizione con cui ci avviciniamo all’arte di fare agricoltura, di coltivare. Abbandonarsi alla natura significa avvicinarsi nel silenzio, osservarla, toccarla e lavorarla con delicatezza, con l’intenzione di operare con lei non per ottenere a ogni costo un buon risultato ma affidarci ai suoi ritmi alle sue regole per comprenderla. È necessario riscoprire la sacralità del rapporto con la terra nel momento in cui noi ce ne serviamo perché ci dia i suoi frutti, non trascuriamo che il mito greco classico ci racconta che fu Demetra Dea delle messi ad impartire l’arte del coltivare all’uomo e alla donna.

Emilia Hazelip andava argomentando:

Come con la ‘sola’ conoscenza di cosa si svolge al di sotto del livello del suolo ed evitando di interrompere e di interferire con quel flusso vitale, sia possibile ottenere raccolti mediamente più abbondanti di quelli ottenuti con metodi convenzionali, allevare piante sane che non hanno bisogno di interventi chimici e mettere in moto una serie di azioni positive, capaci nel tempo di invertire la rotta dei suoli coltivati verso la sterilità.

(da Emilia Hazelip, Libera scuola di Agricoltura Sinergica)

Non è necessario altro che uno spirito di dedizione e di ammirazione anche nelle sconfitte, l’orto e il giardino non sono un risultato di cui andare fieri o da ostentare e mostrare al primo che passa, sarà invece lei la natura con i suoi frutti a richiamare ospiti incuriositi come farfalle, insetti buoni, arvicole e starà a noi trovare le modalità più semplici e adeguate per conviverci.

Quanto più lo renderemo vario e colorato tanto più richiamerà l’interesse di amici e conoscenti che magari un giorno verranno contaminati da una sana passione agricola.

1 Questo concetto era sempre ribadito da Ippolito Pizzetti (1926-2007), saggista e docente di arte del paesaggio per molti anni alla Facoltà di Architettura di Ferrara; in Italia fino a 10 anni fa non esisteva una Laurea in Architettura del Paesaggio e Pizzetti sosteneva che il miglior paesaggista è quello che non proviene né dalla facoltà di Scienze Agrarie né quello che esce da Architettura, ma da un corso di Laurea ad hoc come già da molti decenni esistevano in Inghilterra in Germania o in Francia. Questo perché l’agronomo non ha cognizioni di composizione architettonica, di estetica e di storia del paesaggio mentre l’architetto non ha cognizioni di agronomia, botanica, biologia e molto altro. Non resta che una progettazione in tandem, diceva giustamente, l’unico modo per creare ottimi risultati e citava l’esempio del felice sodalizio tra Carlo Scarpa e Pietro Porcinai.