Sottolineare che la ricerca e l’innovazione rappresentino le chiavi di volta per lo sviluppo del prossimo futuro, oltreché apparire scontato potrebbe persino risultare superfluo o tautologico. Quel che invece conta è come questa ricerca e questa innovazione vengono declinate e costruite dai principali attori e dal concorso in termini di risorse sia dei privati che del pubblico in una direzione che si spera sinergica e non antitetica. Per ottenere quella che il presidente del Cnr, Inguscio ha delineato come una politica di reclutamento regolare, programmata, garantita.

L’occasione è stata la recente presentazione, al Consiglio Nazionale delle Ricerche - alla presenza di esponenti delle istituzioni - della Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia 2019. Un’occasione concreta di toccare con mano le condizioni attuali, le complessità, le criticità, i punti di forza e le carenze ancora esistenti. Il rapporto ricco di analisi e dati di politica della scienza e della tecnologia, realizzato dal Consiglio è ora a disposizione del Governo, del Parlamento e della opinione pubblica e costituisce una prova importante per contrastare ritardi, inadempienze, sovrapposizioni. Dati che sono peraltro in costante evoluzione così come si addice ad una lettura che tenga conto dei mutamenti epocali in atto e della loro rapidità.

In termini sintetici la fotografia del Rapporto indica che migliorano, in misura però insufficiente, i dati della spesa per Ricerca e Sviluppo in rapporto al Pil, degli stanziamenti pubblici, dei ricercatori in rapporto alla forza lavoro, del divario di genere, del saldo commerciale tecnologico e dei brevetti. Si conferma il quadro positivo della produzione scientifica dei nostri ricercatori. L’Italia è fermamente integrata nei Programmi Quadro dell’Unione Europea, e tuttavia il contributo nazionale continua ad essere superiore a quanto riusciamo ad ottenere con i progetti di ricerca aggiudicati. Carenti invece i segni di miglioramento per quanto riguarda l’età media dei ricercatori italiani. Il Rapporto conclude considerando nel complesso la posizione italiana ancora lontana dalla media Ue e dai competitor europei.

Proviamo allora a descrivere questa messe di informazioni e di dati, seguendo le linee del Rapporto stesso. In Italia, la spesa per Ricerca e Sviluppo (R&S) in rapporto al Prodotto interno lordo (Pil) è in lieve ripresa, ed è passata dall’1,0% del 2000 a circa l’1,4% del 2016, grazie anche all’interruzione del trend di diminuzione degli stanziamenti pubblici. Un incremento che però non è in grado di farci spostare dalla posizione di fondo classifica dei Paesi europei, dove il rapporto tra investimenti in R&S e Pil è quasi del 2%. Dopo la flessione del biennio 2014-15, appaiono in ripresa come sottolineato anche gli stanziamenti del Miur agli Enti pubblici di ricerca (Epr), passati da 1.572 milioni nel 2016 a 1.670 milioni nel 2018: il Cnr, in particolare, ha ottenuto nel biennio un incremento da 555 milioni a 602 milioni.

Sul fronte dell’elemento umano, la quota dei ricercatori in rapporto alla forza lavoro, pur rimanendo ben al di sotto di quella degli altri Paesi europei e distanziandosi ancora di più dalla media Ue, è costantemente cresciuta nell’ultimo decennio. Dal 2005 al 2016 i ricercatori sono aumentati di circa 60.000 unità. Tra i settori istituzionali, la crescita più rilevante si è registrata nelle imprese private: i dati più recenti mostrano una tendenza in atto che avvicina questo settore per numero di ricercatori all’università: quest’ultima rimane ancora l’area maggiore, con 78.000 addetti contro i 72.000 delle imprese, ma nell’università il numero complessivo è pressoché stazionario nel tempo.

Anche gli Epr hanno registrato una crescita sensibile nel corso degli ultimi 10 anni, giungendo a circa 29.000 ricercatori, oltre il 15% del totale. Molto rilevante la quota di assegnisti: sono più del 20% dei ricercatori nelle università, e addirittura il 25% negli Enti.

Il Rapporto rileva, e questo appare uno dei trend di maggior significato, un progressivo aumento delle ricercatrici e, secondo le proiezioni, entro il 2025 il divario di rappresentanza di genere potrebbe pressoché scomparire nelle istituzioni pubbliche e ridursi drasticamente nelle università, mentre nelle imprese sembra rimanere sostanzialmente immutato. Un dato ottimistico che tuttavia nasconde una zona d’ombra, quella della progressione di carriera, che tuttora continua a penalizzare le donne.

Seguendo la traccia del Rapporto, altro elemento caratterizzante la situazione è quello che riguarda l’età dei ricercatori. In questo ambito la Relazione che accompagna il Rapporto confrontando i dati evidenzia come nell’università italiana gli over 50 superano la metà dei docenti, mentre nel Regno Unito e in Francia sono, rispettivamente, il 40% e il 37%.

L’età media dei docenti italiani è di quasi 49 anni e quella dei ricercatori negli Epr è di 46. I ricercatori nelle imprese private hanno invece un’età inferiore, pari a 43 anni. Un fenomeno che è certamente correlato al generale invecchiamento della popolazione italiana, ma che testimonia tuttavia la difficoltà di portare avanti nel settore pubblico un reclutamento ordinario basato su una programmazione di lungo periodo che richiede certezza di risorse e di programmi. Secondo le proiezioni, in assenza di politiche strategiche di lungo periodo, l’età media dei ricercatori continuerà ad aumentare in tutti i comparti.

Ecco perché come indica lo stesso presidente del Cnr: “La sfida della scienza passa anche per politiche orientate ad un futuro, che è già presente, in cui si realizzino le necessarie sinergie tra ricerca, tecnica, ambiente, patrimonio culturale: rafforzando così un patto che è iscritto nella nostra stessa Costituzione e che cerca di produrre, senza discriminazioni, benefici per le donne e per gli uomini. Le donne e gli uomini che lavorano nella ricerca devono anche essere protagonisti di una politica di reclutamento adeguata. Siamo riusciti a non disperdere le competenze sviluppatesi negli anni, stabilizzando in modo molto significativo il lavoro precario, a far ripartire un nuovo reclutamento con concorsi nazionali competitivi organizzati per aree strategiche, a realizzare promozioni meritocratiche. Centrale sarà d’ora in poi una politica di investimento che consenta un reclutamento regolare e programmato ed eviti il prodursi di nuovo precariato”, le indicazioni per il futuro.

Altro aspetto qualificante, in ambito europeo e internazionale, quello che riguarda la produzione scientifica, per il quale si conferma il quadro positivo della relazione precedente: la comunità dei ricercatori italiani produce una quantità di pubblicazioni significativa e in crescita: sia come quota mondiale (quasi il 5% nel 2018), sia per qualità, attestata dalle citazioni medie ricevute per pubblicazione, che nel biennio 2017-18 sfiorano l’1,4. Una produzione scientifica analoga a quella della Francia, la quale però conta su un numero di ricercatori più elevato rispetto al nostro paese. di debolezza dei diversi settori della ricerca accademica.

L’Italia continua a essere un partecipante attivo dei Programmi Quadro Europei, compreso Horizon 2020, conseguendo nel primo triennio del programma europeo settennale in corso l’8,7% dei finanziamenti: una quota però distante da quella dei finanziamenti ottenuti dai maggiori paesi europei quali Germania (16,4%), Regno Unito (14,0%) e Francia (10,5%). Da questo discende che il saldo tra quanto il Paese contribuisce ai Programmi Quadro dell’Ue e quanto riesce ad ottenere è purtroppo tuttora in negativo: l'Italia, infatti, concorre con il 12,5% al bilancio complessivo e intercetta lo 8,7% delle erogazioni.

La ragione di questo risultato è in parte il minor numero di ricercatori presenti in Italia e in parte il tasso di successo dei progetti coordinati dal nostro Paese, pari al 7,5% a fronte di una media di Horizon 2020 del 13,0%. Un handicap certo, un freno alle potenzialità nazionali anche se Daniele Archibugi e Fabrizio Tuzi, ricercatori Cnr tra gli autori della Relazione, osservano che “ci sono margini di miglioramento che rendono necessario perseguire politiche strategiche. Per aumentare il tasso di ritorno dell’investimento europeo, occorre pensare a sostegni amministrativi, ad incentivi per chi presenta domande, favorendo la collaborazione pubblico-privato e l’innovazione, e coinvolgendo maggiormente idee e proposte dei giovani ricercatori”.

Se si guarda poi all’entità del public procurement, cioè gli appalti pubblici, i dati evidenziano effetti marginali: gli avvisi relativi al settore Ricerca e Sviluppo sono 6 ogni mille gare bandite, mentre nel Regno Unito sono 10 su mille e in Germania 8. Il procurement di ricerca e sviluppo nel 2018 ha raggiunto i 176 milioni di euro, appena lo 0,15% del totale dei beni e servizi acquistati dalla pubblica amministrazione. Basterebbe, sottolinea la Relazione, un moderato aumento di questi numeri per incrementare notevolmente l’investimento totale: se, ad esempio, il valore arrivasse all’1% degli appalti pubblici nazionali, con un incremento di circa 6 volte rispetto alla spesa attuale, si genererebbe un significativo strumento per promuovere l’innovazione industriale.

Segnali di miglioramento anche se minimi e non ancora indicativi di un trend, quelli degli indicatori relativi alle prestazioni tecnologiche. Se poi si presta attenzione al saldo commerciale nell’alta tecnologia, nell’ultimo decennio il deficit registrato dall’Italia è diventato meno rilevante, attestandosi nel 2018 su un meno 4 miliardi di dollari. I settori high-tech dove si riscontrano le maggiori quote esportate si confermano l’automazione industriale, con il 7% delle esportazioni mondiali, e la farmaceutica, con circa il 4,5%. Anche i brevetti depositati ogni 100.000 abitanti hanno mostrato un incoraggiante miglioramento: 6,7% nel 2016; 7,2% nel 2018. I brevetti italiani continuano, tuttavia, ad essere solo il 2,52% sul totale mondiale, segno anche questo del ritardo strutturale nel quale si muove ancora il nostro paese in un ambito che continua a non essere privilegiato come sarebbe opportuno e auspicabile per un paese che è pur sempre tra le maggiori potenze mondiali e che manifesta vivacità e potenzialità ancora da sfruttare. Solo a patto che la gestione politica e delle risorse ne faccia uno dei capisaldi e dei fondamenti strutturali della crescita e dello sviluppo.