In uno degli episodi più complessi e significativi dell'intera Iliade Priamo e Achille si ritrovano a versare le loro lacrime insieme, uno abbracciato alle ginocchia dell'altro, il re dei Troiani e il campione degli Achei; nemici giurati sul campo di battaglia, essi si scoprono profondamente sodali nel comune dolore della perdita, umanamente vicinissimi in un sorprendente gioco di identificazioni che fa del vecchio quasi il padre dell'altro e del giovane quasi un temporaneo sostituto di quel figlio amato che non è più. E non è esclusivamente in occasione del lutto che il più bello tra gli eroi piange, né tantomeno è il solo che si abbandoni ripetutamente e furiosamente a una simile manifestazione del proprio sentire. Piange Achille la sua ira brutale e distruttiva per l'onta inaccettabile di vedersi sottratta la schiava prediletta, piange di rabbia Agamennone costretto a piegarsi al volere del dio Apollo, piange Ettore congedandosi dalla sposa e dal figlio; piange di nostalgia Odisseo che incessantemente agogna il ritorno a casa, piange Telemaco per la lunghissima lontananza del padre, piange Menelao sotto il peso di una memoria troppo dolorosa da sopportare. Piangono tutti i combattenti dei due poemi e lo fanno a viso aperto, con singhiozzi violenti, senza risparmiarsi.

Eppure, scene come queste suscitano sconcerto in noi moderni lettori occidentali, abituati a modelli di virilità di tutt'altro genere; anzi, probabilmente rimangono per noi addirittura incomprensibili le motivazioni per le quali certi atteggiamenti siano stati sistematicamente attribuiti dal poeta a personaggi che abitano il nostro immaginario quali emblemi inavvicinabili della forza assoluta e del coraggio, dell'audacia, della brama di gloria, dello sprezzo di ogni pericolo.

Infinite sono le modalità del pianto di cui i popoli della storia hanno dato nel corso del tempo preziosa testimonianza, così come infinite sono le rappresentazioni che la letteratura, le arti figurative e il teatro hanno regalato dei molteplici canoni espressivi di questa incredibile forma di comunicazione che appartiene esclusivamente e specificamente all'uomo, e che nessun'altra specie animale conosce. “Piangere” equivale sempre a “voler dire”, implica un intenso bisogno di comunione, comporta l'aspettativa di una risposta; persino la composizione chimica delle lacrime “emozionali” si caratterizza in maniera completamente differente rispetto a quella delle lacrime “basali” (finalizzate alla costante lubrificazione del bulbo oculare) e di quelle cosiddette “di risposta” (che sgorgano in seguito agli sbadigli e alle risate, oppure come reazione immediata a un improvviso eccesso di luce o al contatto degli occhi con un corpo estraneo), quasi a significare la loro particolarità, la loro totale unicità.

Nella nostra società è alle donne che viene unanimemente riconosciuta una maggiore familiarità con il pianto e indubbiamente le motivazioni vanno ricercate innanzitutto in una serie di fattori di natura psico-biologica. Alle donne appartiene costitutivamente un vissuto emozionale più intenso e la struttura stessa delle lacrime rivela un'alta percentuale di prolattina, l'ormone che agisce sul ciclo mestruale, sulle fasi della fecondità femminile e sulla lattazione. Tuttavia c'è molto altro, perché è innegabilmente anche in ragione di una serie di atavici condizionamenti culturali che negli uomini viene generalmente e pesantemente inibita qualunque propensione alla commozione, specie in pubblico, persino se colpiti dal dolore più grande, persino in occasione di un lutto. Ma perché? Cosa può aver determinato il diffondersi di un tale retaggio, cosa ne ha favorito il radicarsi? E soprattutto a quando far risalire le origini di questa forma mentis che oggi ci spinge a guardare con sospetto ai guerrieri piangenti dell'epos?

In uno dei suoi affascinanti lavori (intitolato proprio Le lacrime degli eroi) Matteo Nucci ricorda quale disappunto avessero suscitato nella comunità cittadina gli strazianti lamenti che il grande Pericle non era riuscito a trattenersi dal manifestare al momento di rendere gli onori funebri al figlio Paralo, morto in seguito all'epidemia di peste che aveva colpito la città di Atene nel 429 a.C. (Plutarco, Vita di Pericle). Non erano trascorsi che pochi secoli dal tempo in cui gli aedi incantavano le folle celebrando le gloriose gesta di uomini leggendari e ciononostante costò caro allo statista mostrare senza freni la propria fragilità; trascorsero ancora solo pochi anni e colui che gettò le basi della riflessione filosofica occidentale coprì definitivamente di discredito il pianto degli uomini, specie se uomini di Stato, specie se chiamati a governare il complesso apparato di una Città Ideale. Era, infatti, il modello di una nuova paideia quello che Platone andava elaborando, un modello che si riappropriasse di quell'autorità educativa che fino ad allora era stata inconfutabilmente detenuta da Omero e dalla poesia epica, un modello che promuovesse virtù quali la temperanza e la sapienza, che insegnasse a contenere il destabilizzante esplodere delle passioni.

Un passaggio epocale compiutosi, dunque, già in quell'età lontana nella quale la città di Atene stava progressivamente estendendo la propria egemonia sulla Grecia tutta?...l'età del primato della politica e della scienza del ben parlare?...l'età in cui l'arte stessa rifletteva nei propri canoni stilistici gli ideali di proporzionata compostezza e di sereno equilibrio promossi dalla cultura dominante, e li infondeva nelle innumerevoli raffigurazioni dei suoi celeberrimi kouroi, i vigorosi giovani con il corpo eretto e la gamba sinistra leggermente spostata in avanti, con le braccia distese lungo i fianchi e i pugni chiusi, con il caratteristico curvarsi verso l'alto delle linee della bocca a formare un'espressione beffarda quasi di aperta sfida alle prove della vita, ai limiti imposti all'uomo dalla natura, alla morte stessa?

Tutt'altro. Quell'età segnò piuttosto l'aprirsi di una dolorosa frattura dentro ogni uomo, diede avvio a una dicotomia poi mai risolta, non solo dagli antichi, ma neppure da noi. “Sorriso arcaico o smorfia attonita?” si domanda Nucci a proposito dell'espressione di quei kouroi, eternamente in bilico tra l'impassibilità di chi ostenta una fiduciosa sicurezza e lo sbigottimento di chi dubita della propria innaturale - forse addirittura disumana - perfezione. E, come Nucci mette sapientemente in evidenza nella pagine del suo bellissimo libro, eternamente in bilico rimase per tutta la sua esistenza lo stesso Platone, conscio di non potersi sottrarre al dovere di cancellare gli eroi dell'epica con i loro tumulti interiori dal percorso di formazione dei suoi re-filosofi, nondimeno talmente imbevuto di Omero e di tutte le vicende di quei prodi da trasformare il riconoscimento della loro irraggiungibile lontananza in una disperata ammissione della loro straordinaria inimitabile grandezza.

Perché imbattibile è l'uomo che ha il coraggio di piangere in pubblico. Lo sapevano bene Priamo e Achille nel cui pianto condiviso risiedeva un ardimento tale da superare ogni altro ardimento. Lo sapevano bene tutti quei grandi che provavano vergogna per la viltà in battaglia, per il tradimento di un patto, per la mancanza di abnegazione verso la patria, ma non certo per le proprie lacrime; esse al pari del sangue e dello sperma manifestavano con inconfutabile evidenza il vitalismo del corpo, dichiaravano la vulnerabilità di ogni individuo e insieme il suo attaccamento alla vita, segnavano la fatica della sottomissione all'evento ultimo e dell'accettazione di ciò cui nessuno poteva sottrarsi. Fu così che tutti loro divennero immortali, perché seppero vivere in pienezza la propria umanità.

Era lì, sotto gli occhi di tutti, il segreto del più grande eroismo; peccato che neppure coloro che l'avevano così ben compreso ebbero l'ardire di praticarlo fino in fondo.