Il testo You are not a gadget, scaturito dalla mente brillante del tecnologo Jaron Lanier, genera sicuramente profonde increspature sulla vasta superficie critica dellʼoceano navigabile, il Web. Ma se questo sia un sassolino o un macigno non è ben chiaro. Nei ringraziamenti, alla fine del libro, troviamo una nota che sarebbe stato meglio porre nella prefazione. Recita così: “Alcune parti di questo libro sono rielaborazioni della rubrica Jaronʼs World che lʼautore tiene sulla rivista Discover, mentre altre lo sono di contributi al sito edge.org, al Journal of Counsciousness Studies, a I Think Magazine, nonché di diverse lettere aperte o di comunicazioni presentate in vari consessi”.

Ciò avrebbe costituito un incipit rassicurante, una guida posta all’ingresso del complicato e diversificato labirinto di opinioni e riflessioni: il testo difatti esplora in maniera confusionaria moltissime questioni riguardanti il Web, navigando aleatoriamente tra concetti di noosfera, Troll, lock-in, maoismo digitale, cefalopodi, neotenie, e via dicendo. Il flusso del discorso, al termine dellʼultima pagina, appare decisamente confuso. Lanier pecca inconsciamente di quello che lui stesso riscontra e critica nella cultura web contemporanea o 2.0: superficialità, appiattimento dellʼespressione in una “poltiglia” (cit.), in una produzione di frammenti al posto di espressioni o argomentazioni complete e ponderate. Parole sue!

In questa moltitudine si trovano giudizi e considerazioni di notevole interesse e rilevanza, specialmente nei primi due capitoli (I. Che cos’è una persona; II. Lʼapocallisse della rinuncia al Sé) in cui, valutando il ruolo di un nuovo "umanista tecnologico", l’autore si premura di analizzare gli influssi che le nuove tecnologie e il web hanno prodotto e tuttora producono sulla società e sullʼindividuo, suggerendo inoltre regole e riflessioni per un nuovo “umanesimo digitale”. Tra queste, perle di profondità e sensibilità acuta quale: “La spiritualità si sta suicidando. La coscienza sta per congedarsi volontariamente dallʼesistenza”. Essenziale e potente.

Lanier si pone come un mago intento a rivelare i propri trucchi: il tecnologo creatore di sistemi informatici e tecnologici, espone, critica e analizza per noi i sistemi e le congetture nascoste dietro la cultura e il progresso digitali: dinamiche che in quanto fruitori disattenti non si è in grado di percepire. You are not a gadget, sebbene diverse affermazioni possano risultare non condivisibili (come le opinioni sui Creative Commons), non manca di spunti interessanti. In questo intricato insieme di riflessioni è tuttavia facile perdersi, confondersi. Anche per lʼautore stesso, che sembra più volte contraddirsi.

Lanier, facente parte della schiera di pionieri della Silicon Valley, e ancor più specificatamente legato alla sperimentazioni sulla Realtà Virtuale, nellʼultima parte del testo affronta temi profondamente impregnati di futuribilità, sebbene sempre trascritti e mediati da unʼanalisi poco accurata e superficiale. Appena ventenne allʼepoca degli sviluppi delle Cyberculture, l'autore ipotizza teorie legate alle tridimensionalità e alla comunicazione “post-simbolica”: la sua ambizione maggiore risiede nella realizzazione del morphing umano, trionfo e al contempo base instabile di questa nuova forma di non-linguaggio umano.

L’autore profetizza dunque la produzione e la condivisione fluida in tempo reale dellʼespressione, non più mediata da codici linguistici, scardinata da protocolli e dalle fissità imposte dal concetto di Singolarità. Probabilmente, un linguaggio non mediato, a-simbolico, potrebbe costituire, come afferma Lanier, la via di accesso alla coscienza. Tuttavia lo scetticismo porta a riaffermare la supremazia della concezione che vede procedere i meccanismi della coscienza di pari passo col simbolo: i sistemi di traduzione del pensiero umano, seppur non in tempo reale, hanno raggiunto una perfezione comoda, sebbene magari non perfetta. Forse sarebbe sbagliato non lasciar margini di dubbio e dʼinterpretazione al pensiero umano e alla coscienza, a favore di una diretta e retorica rappresentazione di questi: significherebbe ancora una volta voler tarpare le ali allʼimmaginazione umana. Significherebbe ridurre a pure immagini didascaliche i pensieri, che per quanto si possa tentare, rimarranno sempre ancorati a un simbolismo metafisico e spirituale. Significherebbe tradurli in gadget protocollati.

Così, se proprio volessimo fingerci “nuovi umanisti”, sarebbe utile riscoprire mentalità arcaiche, proliferanti di immaginazione e allʼinterno delle quali si sviluppò il simbolismo archetipico dellʼessere umano. L’affermazione di C. G. Jung “Il pensiero era immagine e la conoscenza era il simbolo”, ad esempio, avvilisce e mina le basi della teoria sulla comunicazione post- simbolica in poco più di 20 sillabe: ciò che rende lʼessere umano tale, e dunque non macchina, non gadget, non computer, è la sua spiritualità. Nel volume Dalla psicanalisi all'astrologia di A. Barbault, afferma: “Il simbolismo appare come la lingua fondamentale della vita psichica inconscia poiché il suo linguaggio è “consubstanziale” rispetto allʼessere umano”.

Il progetto di Lanier, appare, inconsapevolmente (per lʼautore), come uno scenario tra i più terrificanti: anti-umanista, anti-umano. “Si, potremmo davvero essere dei gadget, nel momento in cui, lʼessenza più pura del pensiero, il simbolo, venisse tradotto in bit.” Ridurre un universo simbolico-immaginifico a mera rappresentazione didascalica e asettica significherebbe privare lʼessere umano della sua più intima relazione con la coscienza, e ancor più importante, con lʼinconscienza. “Avendo il sogno preceduto la coscienza, come la notte il giorno, lʼimmaginazione da cui è sorto il mito ha preceduto il pensiero razionale” (A. Barbault).