Laureata in psicologia clinica, è studiosa, esperta e formatrice in progetti per l'uso consapevole delle tecnologie digitali, ha condotto laboratori presso istituzioni scolastiche e collaborato a quotidiani. Nel 2017 ha fondato “Smart Break”, per il benessere digitale del welfare aziendale e recentemente ha pubblicato, presso l'editore Hoepli, #Egophonia, gli smartphone tra noi e la vita.

Sono nata nel 1984, il giorno dopo il debutto del Mac di Apple sul mercato. A 16 anni ho avuto il mio primo cellulare, epoca di sms da 160 caratteri e Snake. Dopo la bolla delle dot-com, nel 2001 sono andata a studiare in Nuova Zelanda e ho creato il mio primo indirizzo e-mail per scrivere a casa. Mi sono laureata in psicologia clinica all’Università degli Studi di Padova e durante l’Erasmus a Parigi nel 2007 ho aperto il mio profilo Facebook. Dopo la laurea ho provato vari percorsi professionali, ho fatto svariati esperimenti che poi mi hanno portato a trovare la mia strada solo dopo qualche anno. Ora sono una libera professionista, lavoro nella formazione aziendale e questo mi porta soddisfazioni e difficoltà. Lavorare in proprio non è sempre facile ma le sfide mi piacciono, quindi vado avanti godendomi il percorso.

Quali sono state le esperienze che l'hanno portata ad interessarsi di dipendenza da social media e smartphone?

Dal 2015 al 2018 ho lavorato in una start up digitale, in quegli anni durante un viaggio in Indonesia mi si rompe lo smartphone e così trascorro tre settimane di digital detox. Lì ho iniziato a studiare il rapporto tra essere umano e digitale. Nel 2017 mi sono trasferita a Budapest e quella è la prima volta in cui ho sfruttato davvero i social per conoscere persone nuove, nello stesso anno ho aperto smartbreak.it con l’obiettivo di fare divulgazione sul benessere digitale. Il progetto si è molto evoluto dall’inizio, è stato anche il bello di questo percorso. Negli ultimi tempi sono molto più concentrata sulla formazione aziendale perché credo che nei contesti lavorativi ci sia un grande bisogno di portare una riflessione sul rapporto tra esseri umani e digitale.

Attualmente lavora a Milano come consulente nella formazione sull'uso consapevole dei media digitali: ha notato una differenza tra chi usa lo smartphone in una grande città e chi vive in altri ambiti ambientali?

Non ho notato una differenza in termini di contesto di vita ma piuttosto di professione. Si tratta di una mia percezione personale, costruita dalle osservazioni nel mio lavoro, quindi non voglio generalizzare il mio pensiero in modo assoluto. Dal mio punto di vista però ci sono delle categorie professionali, delle tipologie di aziende, che sono maggiormente toccate dall’argomento. Faccio un paio di esempi.

Le aziende in ambito tecnologico (software soprattutto) sono quelle che ho riscontrato essere più sensibili al tema del benessere digitale. Probabilmente per due motivi, da un lato mi sono interfacciata con aziende con un’età media abbastanza bassa, in cui i giovani lavoratori amano interrogarsi sul modo in cui stanno con i device digitali. Dall’altro si tratta di contesti professionali in cui le persone trascorrono un numero considerevole di ore tra pc, tablet, smartphone e quindi cominciano a sentire il peso del sovraccarico informativo se non gestito in modo adeguato.

Il secondo tipo di categoria professionale che noto essere molto sensibile e toccata dal tema del benessere digitale sono i venditori. Questo perché in genere la forza vendita è costituita in genere da persone che trascorrono molto tempo in macchina e hanno un carico di comunicazioni (mail, telefono, messaggi) con clienti e azienda madre, non indifferente. Per questo tipo di persone, quindi, trovare dei modi per gestire il sovraccarico informativo senza cadere nella tentazione di sbirciare le mail alla guida, è un tema cruciale. Può sembrare una cosa ovvia e di buon senso, ma le statistiche sugli automobilisti al cellulare ci smentiscono.

C'è una differenza nell'approccio al digitale, tra donne e uomini?

Anche qui io non rilevo una differenza significativa in termini assoluti. Ci sono delle differenze in fatto di tipologia di attività svolta, talvolta. Per esempio, lo shopping online è più delle donne e in genere anche i social media. Tuttavia dipende anche molto dall’età degli individui.

La stampa, la fotografia, la radio, la televisione, nel passato remoto e prossimo, oggi lo smartphone. L'uomo si sta sempre più avvicinando ad una realtà riproducibile e virtuale: processo inevitabile? Progresso o decadenza?

Processo inevitabile sicuramente, che ci piaccia o meno. In ogni periodo storico c’è stata la paura della nuova evoluzione tecnologica del momento, eppure la storia ci mostra un continuo progresso dell’essere umano. Oggi non mettiamo in dubbio la bontà della scrittura e della lettura ma Platone la temeva. Infatti nel dialogo platonico Fedro, Socrate diceva a Theut: “Cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di sé stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei”.

Oggi la rivoluzione tecnologica in cui siamo immersi può spaventare, sicuramente è molto veloce e questo a volte ci pone una certa difficoltà. Io però non credo si tratti di decadenza, piuttosto l’essere umano deve assestarsi ad un nuovo modo di stare al mondo. Un modo che oggi è il connubio tra analogico e virtuale, e non credo che uno sia meno reale dell’altro.

Già negli anni ‘60 Marshall McLuhan aveva scritto: “Il medium è il messaggio” ...

Esatto. Gli effetti della tecnologia non si verificano a livello di opinioni e concetti, ma alterano costantemente e senza trovare resistenza, le reazioni sensoriali o le forme di percezione. Dunque lo smartphone (e prima radio, tv, cinema e telefono) modella il processo del pensare.

La stessa considerazione la fece anche Nietzsche, quando iniziò a usare la macchina da scrivere “I nostri strumenti di scrittura hanno un ruolo fondamentale nella formazione dei nostri pensieri” (Valtolina, 2013).

Ci sono delle tecnologie cosiddette intellettuali in cui rientrano, per esempio, l’orologio, le mappe e la macchina da scrivere, che hanno modificato il modo di pensare dell’uomo, il suo modo di vedere il mondo. Ovviamente in questa categoria rientra anche Internet.

Nell'uso dello smartphone domina la compulsività all'immediato e all'effimero: come sostituirle con la locuzione latina “festina lente”?

La digitalizzazione porta con sé un cambiamento nella percezione del tempo e della velocità. Un contenuto pubblicato online dopo qualche ora è già scaduto, vecchio, e il suo valore diminuisce. Da questo non possiamo tornare indietro. Possiamo però notare come il corrispettivo fisico di un oggetto o servizio digitale, continui ad avere un percepito più alto in termini di qualità, da parte delle persone. Motivo per cui ben vengano gli ebook e la lettura digitale, ma il libro cartaceo o il giornale continuano ad aver il loro fascino e allure di consistenza. Tutt’ora noi esseri umani siamo influenzati dallo spessore di un biglietto da visita che riceviamo da uno sconosciuto, semplicemente toccandone la consistenza e sentendone lo spessore.

L'uso sempre più invasivo dello smartphone ha creato anche forme nuove di psicopatologie, come la nomofobia (dall'inglese no-mobile-phone-phobia), cioè il timore di restare senza telefono...

Oggi si parla di dipendenza da smartphone, da Internet, FOMO (Fear Of Missing Out), Nomophobia (No More Phone Phobia) ecc. Insomma, una serie di termini che vanno a declinare gli aspetti più problematici del rapporto che l’essere umano ha con il cellulare. La fantasia di molti si è sbizzarrita nella creazione di termini che vadano ad identificare le sfumature dei comportamenti esagerati che alcuni esseri umani assumono con gli schermi. C’è da dire però che da un punto di vista scientifico non c’è accordo sull’esistenza della dipendenza da Internet.

Ci sono pareri discordanti, ma allo stato attuale delle cose il disturbo non è inserito nel DSM-IV ovvero il manuale di psicodiagnostica utilizzato da psichiatri e psicologi a livello internazionale. Questa è una puntualizzazione utile per porre nella giusta cornice di riferimento la questione, dopodiché si prende atto che un problema talvolta c’è. Le aree in cui si palesa sono soprattutto tre: capacità cognitive, relazioni interpersonali e corpo. In tutti questi tre livelli precisiamo che lo smartphone non può essere considerato causa diretta di una serie di problemi che si manifestano, piuttosto è un elemento facilitante e che si pone in un rapporto di correlazione.

E anche l'uso dei social e delle chat porta ad un ambiguo rapporto di comunicazione con l'altro, dove la ricchezza dell'incontro/scontro reale viene sostituito, come è scritto nel suo libro, da “parole che si riducono a icone, le emozioni a emoticon ...”

Dobbiamo rieducarci un po’ tutti credo, e forse saranno proprio i nativi digitali ad essere una risorsa in questo senso. Non concordo con il trend della critica verso la generazione dei più giovani, semplicemente loro non hanno visto un mondo senza schermi.

Nel libro #Egophonia, gli smartphone fra noi e la vita (Ed. Hoepli) propongo un metodo in 5 passi per poter rivedere il proprio utilizzo del digitale e introdurre delle strategie di cambiamento che ci facciano stare meglio. I passi sono:

  • studia il tuo comportamento
  • metti in chiaro i tuoi obiettivi
  • attua il cambiamento
  • riqualifica il tuo tempo
  • traccia nel futuro

Come riuscire a meglio gestire le distrazioni digitali? Tre consigli veloci. Prima di tutto definendo tempi e luoghi (anche limitati) in cui il digitale non entra, per preservare uno spazio di massima concentrazione. In secondo luogo, educando i propri collaboratori, clienti e interlocutori in generale a contattarci nei contesti digitali come noi lo desideriamo. Se non vogliamo che un cliente ci contatti su WhatsApp, non facciamolo a nostra volta. Infine, avere sempre chiaro l’obiettivo per cui stiamo per sbloccare lo smartphone o aprendo la mail, e attivare la nostra consapevolezza per evitare di essere agganciati da tutta una serie di distrazioni che rischiano di portarci altrove.

Quanto Milano, con le sue istituzioni, pubbliche e private, e la sua offerta formativa, sta facendo per l’educazione e rieducazione digitali?

Io ho una visione parziale, perché non ho molto a che fare con le istituzioni pubbliche in questo momento. Però provo a dare un quadro di ciò che vedo portando alcuni esempi. Primo fra tutti l’esperienza con la casa editrice che ha pubblicato il mio libro, Hoepli, che è tutta milanese. L’editore ha scelto nel 2018 di lanciare una collana (Tracce, il cui curatore è Paolo Iabichino) dedicata ai punti di intersezione tra tecnologia e umanità proprio per offrire delle riflessioni sull’educazione al digitale.

Un secondo esempio attuale che riguarda la città è l’iniziativa “Io Robotto” alla Fabbrica del Vapore, in cui si propongono eventi ed esposizioni relative alla robotica. Un terzo dato che raccolgo dalla mia esperienza nella città di Milano in merito alla sensibilità dei genitori su questi temi è che ci sia molto interesse a capire come gestire il digitale a casa. Infine devo riconoscere che diverse aziende si stanno interrogando sull’impatto del digitale sulla distrazione e sul benessere dei propri dipendenti, offrendo quindi percorsi di consulenza e formazione alle persone. Questo riguarda soprattutto Milano.