All’interno del Museo degli Uffizi a Firenze nella seconda sala, si trovano tre opere di tre dei pittori più importanti della fine del Duecento e l’inizio del Trecento: essi sono Duccio, Cimabue e Giotto. La sala è definita “delle Maestà” dal soggetto delle tre opere, vale a dire la Vergine assisa su un trono con Gesù Bambino in grembo e venne realizzata negli anni Cinquanta dal Gruppo Toscano sotto la guida di Giovanni Michelucci. È una sala bellissima con il tetto in legno che ci ricorda l’interno delle chiese dove le tre opere erano originariamente collocate.
La Maestà di Duccio da Siena dipinta nel 1285 si trovava nella basilica di Santa Maria Novella, quella di Cimabue, dipinta nello stesso anno, nella chiesa di Santa Trinita e quella di Giotto realizzata nel 1310 in Ognissanti.
Se le guardiamo attentamente notiamo come quella di Giotto sia diversa dalle altre due e faccia di lui non solo il primo pittore moderno ma molto probabilmente il primo artista della storia. Egli viene infatti menzionato insieme a Cimabue da un suo contemporaneo, il grande poeta Dante Alighieri, nella Divina Commedia. Disse il sommo Poeta nel Purgatorio XI canto, versi 94-96:
Credette Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura.
Ma come era la pittura prima dell'arrivo di Giotto? Essa era caratterizzata dal disinteresse del pittore per il mondo reale, il suo scopo principale era quello di trasmettere un messaggio divino, le figure erano come icone, ieratiche, senza alcuna presenza di emozioni e il fondo era sempre di un color oro, in quanto le divinità vivono fuori dallo spazio e dal tempo e non hanno bisogno di un paesaggio. Tale stile venne definito bizantino.
In questo stile come anche in quelli successivi fino al Settecento il pittore doveva utilizzare strumenti comprensibili a persone perlopiù illetterate, i colori, ad esempio, erano molto importanti: il blu era il simbolo della regalità, il rosso della passione, talvolta della carità, il verde della speranza, il bianco della fede e/o della purezza. La posizione delle tre dita unite del Cristo benedicente indicava la Trinità, mentre l’indice e il medio la natura divina e quella terrena. I credenti a quell’epoca conoscevano molto bene questi simboli e l’iconografia dei vari personaggi.
I primi a tentare di cambiare questo stile bizantino, che caratterizzò quasi tutto il Duecento furono Duccio e Cimabue. Essi cercarono di rappresentare figure reali, non più icone, ed in un certo qual modo si avvicinarono alla realtà.
Se guardiamo le loro due Maestà presenti nella sala e ci concentriamo sulle mani, notiamo però come le dita siano ancora poco reali, troppo lunghe, e se guardiamo i due volti sono molto simili, sembra quasi di poterli scambiare, prendere il volto della Maestà di Cimabue e metterlo sul corpo della Vergine di Duccio.
Se, invece, ammiriamo la Maestà di Giotto ci rendiamo conto come la Vergine sia adesso una donna reale, con uno sguardo preoccupato, con delle mani anatomicamente perfette, lo stesso vale per il resto del corpo. È interessante notare la trasparenza della tunica bianca, simbolo di purezza, che lascia intravedere il seno e la piega del manto all’altezza del ginocchio destro che ci lascia percepire il movimento della gamba.
Per un pittore che per la prima volta nella storia vuole rappresentare figure reali la maggior difficoltà è realizzare una terza dimensione in una tavola che ne ha due, altezza e larghezza. Giotto riesce anche in questo grazie alle sue scatole prospettiche, vale a dire creando degli ambienti, come fossero contenitori, che poi va a riempire con delle figure. In questo caso la scatola prospettica è il trono.
Iniziamo, quindi, con Giotto a parlare di prospettiva intuitiva; per quella lineare legata a regole geometriche dovremo aspettare l’inizio del Quattrocento, quanto Brunelleschi la illustrerà con due dimostrazioni pubbliche. La prospettiva lineare sarà poi una delle caratteristiche principali del Rinascimento dove il pittore si sforzerà di rappresentare la realtà perfetta.
Giotto è anche capace di collocare i Santi e gli Angeli intorno al trono in una maniera più reale rispetto a Cimabue e Duccio, nelle cui Maestà le figure sembrano galleggiare nell’aria appese al trono. È interessante notare i due Angeli inginocchiati davanti all’altare che tengono in mano un vaso pieno di fiori, i cui colori rappresentano le tre virtù teologali, il verde la Speranza, il bianco la Fede e il rosso la Carità.
Il fondo in color oro, tipico della pittura bizantina, acquista con Giotto un’ulteriore funzione; viene utilizzato anche per dare un po’ di luce a tavole che erano collocate in cappelle molto oscure, dove l’unica fonte di luce proveniva dalle candele.
Grazie a questo grande artista non parleremo più della pittura bizantina ed inizieremo a parlare di quella latina!