Qualcuno li bollava come 'agitati'. D'altronde un po' strambi dovevano esserlo davvero, loro che scrivevano manifesti incitando al pericolo e alla ribellione, che volevano “uccidere il chiaro di Luna”, dare fuoco alle biblioteche e inondare i musei, che avevano inventato “un'anticravatta metallica” al posto del normale simbolo dell'eleganza maschile, e che rifiutavano persino la pastasciutta. “Ritti sulla cima del mondo noi scagliamo la nostra sfida alle stelle”, chiosava il primo Manifesto, quello del 1909, scritto dal vulcanico poeta Filippo Tommaso Marinetti e firmato con lui dai giovani pittori avanguardisti Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Romolo Romano e Aroldo Bonzagni. Furono i primi Futuristi, quelli che volevano liberare l'Italia “dalla sua fetida cancrena di professori, d'archeologi, di ciceroni e d'antiquari” e che tra slanci di bellicismo e aneliti di rivoluzione, tra sentimenti di patriottismo e opposti ardori anarchici, si trovarono alla fine convintamente imbrigliati nella rete del fascismo. Rete che ha ostacolato il riconoscimento dei loro meriti culturali e artistici creando quella sorta di imbarazzo storico e politico che li ha confinati a lungo nell'angolo più nascosto dei movimenti di Avanguardia europei del primo Novecento. Eppure i futuristi riuscirono a riportare l'arte italiana sulla ribalta internazionale, 'carpendo' i messaggi della modernità racchiusi nelle scoperte della scienza e della tecnica, nelle stazioni ferroviarie, nelle strade illuminate e piene di rumore, nelle metropoli urbane. “Usciamo dalla saggezza come da un orribile guscio”, esortava Marinetti mentre inneggiava nuove bellezze, quelle della velocità, delle macchine, della luce elettrica, della temerarietà e del coraggio. “Ammirare un quadro antico”, si legge nel primo Manifesto, “equivale a versare la nostra sensibilità in un'urna funeraria, invece di proiettarla lontano in violenti getti di creazione e di azione”.

Non ci sono dubbi che quei giovanotti molto intellettuali, ma ancora più provocatori, offrirono al fascismo ottimi stimoli e giustificazioni culturali per costruire il consenso della popolazione. Però è anche vero che, oltre ai proclami strillati, riuscirono ad inventare un nuovo linguaggio estetico collegato alla nuova era e ai grandi cambiamenti a cui l'Italia e il mondo assistevano. L'elettricità, l'automobile, il treno, l'aeroplano erano i miti del progresso e della modernità attraverso i quali l'uomo dominava la natura. La rottura netta con il passato e con le tradizioni apparvero dunque come il passo successivo per svecchiare la cultura e mettersi al passo con i tempi. “Noi vogliamo glorificare la guerra, sola igiene del mondo”, scriveva ancora Marinetti, intrecciando indissolubilmente l'attività del movimento con gli eventi che sono avvenuti nella nostra penisola fino al termine della Seconda guerra mondiale.

Nel Palazzo Blu di Pisa gli oltre 30 anni di vita del Futurismo vengono ripercorsi attraverso più di 100 opere esposte fino al 9 febbraio 2020, molte delle quali provenienti da collezioni private e quindi solo raramente visibili al pubblico. Ai dipinti di Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini, i cinque 'padri fondatori' del manifesto dei pittori futuristi, si aggiungono poi quelli di Depero, Prampolini, Benedetta, Dottori e tutti gli altri che composero i numerosi 'cartelloni' programmatici con cui negli anni successivi si comunicarono idee e progetti. “Dei numerosi artisti che si unirono al movimento abbiamo scelto coloro che firmarono i manifesti citati nelle varie sezioni dell'esposizione, presentando al pubblico opere, non solo di alta qualità, ma anche di grande aderenza ai punti teorici del Futurismo”, spiega Ada Masoero, curatrice dell'evento organizzato da Mondomostre e dalla Fondazione Palazzo Blu. “I loro dipinti sono infatti sempre molto sofisticati. Sembrano follie visive, ma in realtà traducono in immagini dirompenti, innovative e straordinariamente felici sul piano artistico quelle che erano le riflessioni teoriche enunciate nei manifesti”. Così sui lungarni pisani si racconta oggi una storia coinvolgente e controversa del nostro passato prossimo che attraverso il percorso espositivo indaga il sogno futurista di saldare l'arte alla vita coinvolgendo tutti i sensi e le discipline dell'esistenza, non solo pittura, architettura, fotografia e scrittura, ma anche danza, teatro, musica, moda e cucina.

E allora ecco i treni e le automobili in corsa “col cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo” diventare i nuovi miti, oggetti che si deformano e si moltiplicano lanciati a grande velocità, fondendosi con l'ambiente. In Automobile+ velocità +luce, di Giacomo Balla, il meno giovane del gruppo, la compenetrazione con la città è ancora evidente: i palazzi scorrono uno dopo l'altro ridotti a semplici linee, mentre le ruote dell'auto triplicano e ancora si intravede il guidatore con tanto di baffi e cappello con visiera. Ma con Linea di velocità la percezione del reale si altera completamente e i vortici del movimento la trasformano in una pura astrazione. La mancanza del disegno e delle linee di contorno rende più agile l'idea di simultaneità e di fusione. Per Carlo Carra in Ciò che mi ha detto il tram, così come ne L'autobus di Gino Severini, sono i colori a parlare: urlati, violenti, artificiali, così come d'altronde era artificiale la luce elettrica che invadeva case e strade. Boccioni preferiva i cavalli per dimostrare gli effetti della velocità. “Un cavallo in corsa non ha quattro gambe, ne ha venti”, scriveva. E nella Carica di lancieri tutto si moltiplica in un turbinoso inseguimento. Ed è sempre lui, Boccioni, ad aver fornito l'immagine per le nostre monete da 20 centesimi con un'opera ad inchiostro, tempera e matita intitolata Voglio fissare le forme umane in movimento, dove uomini e palazzi si intrecciano in un'unica spirale.

L'onda magnetica del Cubismo non poteva non raggiungere i futuristi, che però 'digerirono' in fretta la moda d'Oltralpe contestando solidali e intrepidi ai francesi una tavolozza spenta e immagini statiche. Troppa razionalità e freddezza nelle loro opere in confronto al dinamismo e alle emozioni della vita moderna di cui gli artisti italiani volevano ricreare i sintomi. Appena tornato da Parigi Boccioni rispose alle sollecitazioni francesi con una scultura in bronzo dal soggetto tipicamente cubista, come una natura morta, a cui impresse, però, il consueto dinamismo futurista. Nacque così Sviluppo di una bottiglia nello spazio dove il prolungamento dell'oggetto nell'ambiente assume una vera e propria forma fisica. Altre risposte arrivarono con successivi manifesti dedicati alla letteratura e alla scrittura in cui si inaugurava una nuova rivoluzione contro il potere dell'intelligenza e della razionalità. Via la punteggiatura, via gli avverbi e gli aggettivi, verbi categoricamente all'infinito: i libri diventano 'paroliberi', una sorta di danza di parole che funzionano con flash visivi, senza veri svolgimenti. Zang Tumb Tuum di Marinetti è un esempio, insieme a molti altri esposti a Palazzo Blu, uniti a composizioni di Balla e Carrà in cui si intendeva evidenziare la natura pittorica della parola.

Se il Cubismo non fu 'impegnativo' nella battaglia futurista, la prospettiva della guerra, invece, portò scompiglio. Per chi, come loro, pensava di fare una croce sul passato e ricominciare tutto da zero, un conflitto apparve il presupposto indispensabile verso il nuovo mondo. In pittura la loro tenace campagna bellicista si tradusse in opere come Cannoni in azione di Severini, Paesaggio guerresco di Depero o Forme grido Viva l'Italia di Balla, dove i colori del tricolore e il blu dei Savoia esaltavano il patriottismo.

Nella vita quotidiana la loro passione non fu minore e per attirare l'attenzione non esitarono a organizzare in giro per l'Italia le famose 'serate futuriste', forme teatrali con declamazione di manifesti unite a provocazioni e insulti al pubblico. L'ingresso era gratuito e scontata era la fine dello spettacolo: lancio di uova, pomodori, bulloni e petardi. Inevitabile anche l'intervento della polizia per sedare il parapiglia. Persino le patrie galere aprirono le loro porte ai cinque scalmanati giovanotti che rispondevano ai nomi di Marinetti, Boccioni, Carrà, Russolo e Piatti quando una sera di settembre a Milano dettero fuoco ad alcune bandiere austriache. Balla, più anziano e forse meno irrequieto inneggiò ugualmente l'intervento bellico con Folla + paesaggio, in cui appare il nodo Savoia in posizione centrale e l'ondeggiare della folla dei non interventisti dipinta con un pessimistico nero. Non solo. Sarà lo stesso Balla, che pure aveva chiamato le figlie Elica e Luce, a presentarsi sul palcoscenico romano del teatro Costanzi in tenuta futurista nel corso della baraonda tra interventisti e 'passatisti'. Era sua la scenografia dello spettacolo presentato, Feu d'artifice, - il cui dipinto è in mostra - dove i danzatori dei Balletti Russi si muovevano in mezzo a luci e forme geometriche solide. Siamo in piena guerra e il nuovo manifesto di Ricostruzione futurista dell'universo dava il via a paesaggi astratti e artificiali composti di coni e piramidi. Intanto il giovanissimo Depero faceva il suo ingresso nel mondo dei 'devoti alla grande Religione del Nuovo' coniando giocattoli e inventando pubblicità, arredi, abiti e marionette.

Saranno anni di altra linfa e altri manifesti che accompagneranno la ricostruzione postbellica celebrando il dio-macchina. “Puleggie, volani, bulloni, ciminiere, acciaio lucido, grasso odorante, profumo di ozono delle centrali elettriche, ansare delle locomotive, urlare delle sirene, ruote dentate, pignoni!”. Così è la Modernolatria che Prampolini, Depero e lo stesso Balla ci raccontano attraverso forme astratto-geometriche, 'predicando', appunto, di ingranaggi e di automi. E quale ingranaggio, se non l'aeroplano, poteva colpire di più l'ardita fantasia di artisti ormai 'complici', forse ingenuamente, di un regime forsennato. La transvolata oceanica di Cesare Balbo con 25 idrovolanti divenne il punto di partenza per scrivere l'ultimo capitolo del Futurismo, fu cardine di nuovi entusiasmi e peripezie intellettuali e personali, mentre il rafforzarsi del regime fascista e poi il turbine della Seconda guerra mondiale condannava i suoi sostenitori a un'amara lezione. Balla dipinge la sua ultima opera futurista che titola Celeste metallico aeroplano, dove il simbolo dei fasci littori si mescola ai 'prodigiosi' velivoli e i colori patriottici a quelli del cielo. Poi tornerà per sempre al figurativo senza voltarsi indietro. Altri, come Prampolini, Dottori e Tato alzeranno ancora la bandiera del movimento inventando l'aeropittura e l'idealismo cosmico. E tra i paesaggi visti dall'alto e le suggestioni di mondi oltre l'atmosfera spunta il faccione di Mussolini, un po' cubista, un po' geometrico-modernista, che si erge tra terra e cielo in mezzo ad un'aureola di aeroplani. “In questa mostra dove presentiamo numerose vette dei veri maestri del Futurismo non volevamo certo nasconderci che questo movimento culturale e il fascismo sono stati conniventi”, spiega Ada Masoero.

Ma nessuno poteva riuscire a uccidere il chiaro di Luna. Marinetti morì pochi mesi prima della fine della guerra dopo essere tornato malconcio dalla campagna di Russia. Il sole del Futurismo si era spento. La guerra aveva lasciato lacerazioni profonde: una lezione amara anche per i costruttori di sogni. Diceva Petrolini, che del movimento era stato un simpatizzante: “Leggo anche dei libri, molti libri. Ma ci imparo meno che dalla vita”.